Quando finisce un sogno come è stato il nostro ci si sveglia con la bocca amara, un peso nelle gambe, la schiena dolorante e un groppo di pianto nella gola.
Un sogno sognato tanto a lungo, prima di essere vissuto come una cosa vera.
Un sogno più vero della realtà, rivelatosi poi più falso di un miraggio del deserto.
Credere ai miracoli non è peccato, anzi i credenti debbono farlo.
Ma credere ai miracoli non deve significare pensare che da un momento all’altro tutto possa cambiare completamente.
Certi miracoli richiedono un po’ più di tempo, un po’ più di impegno e, soprattutto, un po’ più di lavoro comune, nel corso del quale bisogna sforzarsi a predicare il carmen novum, a praticare con rigore quanto predicato, a difendere le prediche e le pratiche da quanti, per pigrizia o mala fede, si oppongono al cambiamento.
Ma aver creduto al miracolo, anche nella sua dimensione non istantanea, e accorgersi che era soltanto una burla è come essere malati di un male incurabile di cui tutti conoscevano l’esistenza da tempo, tranne il moribondo che, invece, lo sa solamente all’ultimo momento.
La scuola medica europea, infatti, sostiene l’opportunità dell’ignoranza del male da parte del malato, anche per evitare che questi, sapendosi incurabile, cessi di curarsi o, peggio, decida di troncare l’attesa della fine.
Eppure, di là dalla usuale ignavia del medico rispetto all’umanità del malato, non c’è nulla che contrasti di più con l’etica della responsabilità, che il non mettere in condizione di sapere l’unico soggetto che può e deve decidere come vivere l’ultimo tempo che gli è dato.
Eventualmente, anche a costo di consumare prima le ultime risorse, lottando contro il male e contro il tempo, cercando di non soccombere prima di aver avviato o compiuto l’opera sua, senza lasciare nulla in sospeso di quanto è necessario fare o dire, senza lasciare nulla intentato di quanto giudichi rientrare nelle proprie responsabilità di Uomo.
Allora, pur nello spirito dell’estote parati, cerchiamo di illuderci ancora che nulla sia predestinato per sempre e per sempre immutabile; cerchiamo di illuderci ancora, di nuovo, che il cambiamento sia possibile; cerchiamo di illuderci ancora che nessuno sforzo debba necessariamente essere vano.
Tentare ogni giorno e sempre di cambiare qualcosa è un dovere morale e civile, nei confronti di noi stessi, che crediamo nel valore della responsabilità, prima ancora che nei confronti degli altri, che possono non riconoscersi in tale valore o non avere la forza di fare onore a quello in cui credono.
Così, forse, potrà tornare a splendere il sole nei nostri cuori; potrà allentarsi l’angoscia del nostro spirito; potrà tornare a farsi in noi, per noi e per tutti, questa nostra tanto amata, troppo amata, nuova Italia.
15 luglio 2004