Cultura del lavoro

 

Negli ultimi anni di questa grande crisi, che non passa, in Italia e in Europa si è parlato molto, e si continua a parlare con poco frutto, specialmente in Italia, di disoccupazione giovanile e, da ultimo, si è cominciato a parlare di disoccupazione tecnologica, per tutte le età.

 

Si sono fatte riforme, anche profonde, della regolazione del lavoro, sia in Italia che in altri Paesi dell’Europa, prevalentemente meridionale, e si sono riformate le regole assistenziali e previdenziali, non senza cominciare ad avviare, da parte dei Paesi più arretrati, come l’Italia, nuovi servizi del lavoro con l’idea di sviluppare, conseguentemente, politiche attive.

 

E, mentre i conservatori hanno visto in tutti questi passaggi, resi necessari anche dalla insostenibilità sopravvenuta dello Stato sociale rispetto ai bilanci pubblici appesantiti dal debito, l’avvio di un conflitto generazionale, altri hanno considerato non determinanti questi passaggi, anche sulla scorta di una analisi comparatistica1.

 

Secondo la quale  decisivi per gli andamenti della disoccupazione giovanile” sarebbero “non solo e non tanto le regole del mercato del lavoro in tema di assunzioni e licenziamenti presenti in un determinato Paese, quanto altri fattori quali la qualità del sistema educativo, la presenza di adeguati percorsi di integrazione e/o transizione della scuola al lavoro, la qualità del sistema di relazioni industriali, il funzionamento delle istituzioni del mercato del lavoro”.

 

E’ una tesi, questa di Tiraboschi, certamente corretta e pienamente condivisibile sul piano delle diagnosi; ma, nello stesso tempo, ha quasi incorporata una prognosi riservata nell’immediato e tendenzialmente infausta in prospettiva. Perché, malgrado la pretesa (onni)potenza della legge, la cura della malattia richiederebbe il cambiamento profondo e rapido di troppi fattori.

 

Ovvero di troppe persone che dovrebbero fare la qualità del sistema educativo; dovrebbero attivare adeguati percorsi di integrazione e/o transizione della scuola al lavoro; dovrebbero rinnovare radicalmente il sistema di relazioni industriali; dovrebbero far funzionare le istituzioni del mercato del lavoro; senza contare, da ultimo in elenco ma primo per importanza, gli stessi giovani a cui si fa riferimento.

 

Allora, ammesso che siano i giovani ad essere alla base di questa piramide dello scontento, perché non facciamo una considerazione d’altro genere, prescindendo da tutti questi pur reali e incisivi fattori? Ovvero, perché non vogliamo cercare di innescare la voglia del cambiamento direttamente in coloro che del cambiamento possono essere i migliori agenti, piuttosto che le vittime eccellenti?

 

Che fare? L’interrogativo rivoluzionario se individualizzato può portare alle classiche alternative di Hirchman2: defezione, protesta e lealtà. E la defezione la vediamo bene in tanti giovani che vanno via, in cerca di miglior fortuna. La protesta anche vediamo, seppur in termini più vaghi e quasi disimpegnati, almeno rispetto ad altri momenti di crisi. La lealtà non vediamo perché essa è essenzialmente invisibile, se  la intendiamo, secondo Pasquino3, come “adesione silenziosa a quello che esiste, accettazione magari passiva, tolleranza dei comportamenti e degli errori della leadership” ovvero, per dirla in termini meno raffinati, menefreghismo o tirare a campare.

 

Invece se riportiamo l’interrogativo al suo autore e pensiamo al valore rivoluzionario del pensiero e dell’intellettuale, che non sia traditore, dovremmo interrogarci su come innescare nei giovani l’idea che, malgrado tutto, dipende da loro, da ciascuno di loro, il cambiamento della società che, necessariamente, passa dal cambiamento loro, di ognuno di loro e dovremmo attivarci conseguentemente.

 

Lo studio, la curiosità del sapere, la voglia di saper fare e saper essere, anche a prescindere da qualunque scuola, alternanza scuola/lavoro, regolamentazione del lavoro, servizi per l’impiego e quant’altro, sono per tutti gli elementi della costruzione della personalità, della identità come persone, oltre che come cittadini di una società, anche da ricostruire.

 

Soltanto se si riuscirà, come intellettuali o educatori o semplici voci, a far capire ciò e a suscitare nei giovani la voglia di essere il motore e i protagonisti, del cambiamento, sarà possibile contrastare il declino, superare la presente e la prossima crisi, vedere un rinascimento della Nazione che, se solo riuscisse a vedere la luce, potrebbe fiorire in più dei classici 100 fiori.  

 

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1) cfr. M.Tiraboschi, La disoccupazione giovanile in tempo di crisi: un monito all’Europa (continentale) per rifondare il diritto del lavoro?, in DRI n.2/2012, passim

 “I Paesi che registrano le migliori performance in materia di occupazione giovanile, come Austria e Germania, conoscono, al tempo stesso, alcuni dei livelli più elevati di protezione del lavoro e, segnatamente, di tutela contro i licenziamenti illegittimi (…).

Mentre è vero che i Paesi con la legislazione più liberista in materia di licenziamento, come Danimarca, Regno Unito e Stati Uniti, registrano elevati tassi di disoccupazione giovanile. Non siamo certamente ai livelli dei peggiori Paesi europei, come Francia, Italia e Spagna, ma comunque pari al doppio di quanto si registra nei Paesi più virtuosi.

 

Quella che è una semplice constatazione empirica pare dunque rafforzare le convinzioni di chi ritiene che le principali barriere di ingresso dei giovani nel mercato del lavoro risiedano non tanto nel quadro regolatorio di riferimento quanto piuttosto nei percorsi di transizione dalla scuola al lavoro e, segnatamente, nella assenza o debolezza degli strumenti di incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro. (…)

 

Un incontro pensato, ovviamente, non solo e non tanto in termini statici, e in funzione della sola presenza di più o meno affidabili servizi (pubblici o privati) per il lavoro, quanto in relazione alla costruzione di percorsi educativi coerenti, in termini di formazione e competenze, con le esigenze attuali e future, in termini di fabbisogni professionali, del mercato del lavoro. (…)

 

L’analisi comparata mostra, in effetti, come decisivi per gli andamenti della disoccupazione giovanile siano non solo e non tanto le regole del mercato del lavoro in tema di assunzioni e licenziamenti presenti in un determinato Paese, quanto altri fattori quali la qualità del sistema educativo, la presenza di adeguati percorsi di integrazione e/o transizione della scuola al lavoro, la qualità del sistema di relazioni industriali, il funzionamento delle istituzioni del mercato del lavoro. (…)

 

Il sistema educativo rappresenta, infatti, sia una politica utile in tempo di crisi sia una politica strutturale e non è dunque un caso se i Paesi con buoni andamenti occupazionali per i giovani risultano dotati di un sistema educativo di istruzione e formazione di qualità.”

 

2) Exit, Voice, and Loyalty. Responses to Decline in Firms,Organizations, and States (1970), tradotto molti anni dopo in italiano con un ottimo titolo: Lealtà, defezione, protesta. Rimedi alla crisi delle imprese, dei partiti e dello stato (Hirschman, 1982a)

 

3) G. PASQUINO, Hirschman politologo (per necessità e virtù), in Moneta e Credito, vol. 67 n. 266 (2014), 167-189 © Economia civile