«Noi europei del ventesimo secolo ci troviamo sospesi tra un passato pieno di orrori e un futuro distante pieno di rischi» diceva Sigmund Bauman ma, mentre il futuro non sembra tanto distante, nel ventunesimo secolo, di certo non stiamo facendo molto per prepararci ad affrontare i rischi, o anche le opportunità, che ci aspettano, non secondo una logica lineare ma con un salto di paradigma inevitabile. Ed è la paura dell’ignoto che ci fa vili, come se il futuro non fosse costruito da noi stessi.
La scuola con i vecchi programmi, la società con le usate categorie, la politica con la normale carenza di respiro, nulla fanno per rendere la transizione più agevole; per dare fiducia e speranza; anzi, malgrado tutte le parole d’ordine modernizzanti, ostacolano in tutti i modi il cambiamento, aggiungendo sempre nuova regolazione laddove, come nel campo del lavoro, occorrerebbe uno sfrondamento o una flessibilizzazione delle regole.
Infatti, se la società è liquida, come ci dice Bauman, come possiamo rendere il lavoro solido? Se poi pensassimo alla dinamica dei fluidi e ricordassimo la teoria del moto browniano capiremmo che le particelle lavoratori immerse nel liquido sociale sono destinate, come i pollini di Brown, a muoversi con un moto incessante e disordinato, che la legge non può e non deve regolare più di tanto. Brown, nell’800 non riusciva a spiegarsi il fenomeno, arrivando ad ipotizzare una qualche “vitalità” delle particelle.
Einstein invece, all’inizio del ‘900, nello stesso tempo in cui nasceva la teoria della relatività, affermò che le particelle si muovono perché incessantemente colpite, in modo casuale ed imprevedibile, dalle molecole del liquido che le circondano e che sono in continuo movimento per agitazione termica, così, una volta spostate dalla iniziale posizione, non possono che continuare ad allontanarsene sempre di più, secondo una costante, chiamata coefficiente di diffusione.
Ora è chiaro che le persone che vivono nella società, non sono come i pollini nell’acqua studiati da Brown e spiegati da Einstein ma, pensandoci bene, un certo parallelismo tra i fenomeni fisici e i fenomeni sociali si può vedere. Del resto la relatività generale, che è alla base degli studi moderni sull’universo fisico e delle attuali conquiste scientifiche, non ha mancato di influenzare anche le riflessioni sull’universo umano.
Perciò, se consideriamo quella particolare scienza umana che presidia la convivenza sociale nelle organizzazioni statuali e internazionali, che è il diritto e se esaminiamo quella branca del diritto che presidia la dimensione del lavoro, non possiamo fare a meno di attivare un certo relativismo. Così dovremmo cominciare a pensare al lavoro come un fenomeno che si articola liberamente nello spazio e nel tempo a seconda dei bisogni e delle opportunità.
Un lavoro che può essere standard, secondo i vecchi schemi, ma può essere non standard, senza dover avere uno o più schemi definiti, salvo il rispetto dei principi di diritto generali. Un lavoro che può intessere nei più diversi modi il tempo della vita. Un lavoro che può essere un gioco giocato molto seriamente per rispondere al mercato e alla persona. Un lavoro adulto, nella ricomposizione tra l’ideatività bambina e la normatività genitoriale.
In questo modo si può dare una nuova dignità al lavoratore che torna ad essere cittadino e può relazionarsi con gli altri secondo le normali categorie del diritto, basandosi essenzialmente, salvo gli ovvi limiti,su quello che è primo imperativo categorico dei contratti: l’autonomia della volontà. Mentre tutta la sovrastruttura delle tutele può trasferirsi dal lavoratore al cittadino, spostandosi dalla dimensione del lavoro a quella della cittadinanza.
Pertanto qualunque normativa nuova sul lavoro autonomo, agile o smart che voglia dirsi, non sarebbe soltanto superflua ma potrebbe essere deleteria, volendo disciplinare i rapporti fra le parti, mentre sarebbe più efficace se rafforzasse le tutele di mercato e nel mercato, oltre che della persona, lasciando che ciascuno possa concludere i suoi contratti come meglio crede; senza peraltro escludere che una persona possa essere, nello stesso tempo ma con diversa articolazione, lavoratore autonomo e lavoratore dipendente della stessa organizzazione produttiva.
Certo è che se, come diceva Bauman, è “la paura che avvelena la società liquida”, la paura del declino, della scomposizione e della scomparsa dell’organizzazione economica, sociale, e anche politica, che irradiava sicurezze e solidità nel corpo sociale, la cosa migliore che possiamo fare è non aver paura della paura.
http://www.repubblica.it/cultura/2014/04/05/news/bauman_paura_ilibra-82719807/