Internet del lavoro

L’economia del lavoro delle o nelle piattaforme, altrimenti detta collaborativa, più che le polemiche sulla classificazione del lavoro, come autonomo o subordinato; più che le vertenze dei soggetti coinvolti e più ancora che le sentenze di giudici, vincolati ad una normativa antecedente alla nascita e alla diffusione di tali forme di produzione di beni e servizi, richiederebbe oggi che si compisse un passaggio che potremmo definire di maturità.

La storia ci insegna che la rivoluzione industriale, all’inizio, è stata violenta; ha comportato uno sfruttamento selvaggio dell’uomo, sul piano fisico, come forza motrice dell’accumulazione capitalistica, necessaria all’impianto e allo sviluppo della nuova – allora – economia delle macchine e necessariamente contrastata – anche per semplici ragioni di sopravvivenza – prima dalle unioni e leghe operaie, poi dalle leggi e dallo Stato sociale.

Tuttavia un grande capitalista americano, a cui dobbiamo l’impronta e il nome stesso dell’industrialismo, Henry Ford, capì ben presto che la produzione di serie non sarebbe potuta decollare finché lo stesso operaio massa, che la realizzava, non avesse avuto le risorse per acquistare il prodotto a cui forniva le sue energie fisiche e il tempo per godere dei suoi acquisti. Così hanno cominciato a sognare il sogno americano e in tutto il mondo abbiamo cominciato a fare lo stesso sogno.

È stato un lungo sogno felice, pur tra luci e ombre, che ora sta finendo, perché avanza, inarrestabile, malgrado tutti i novelli luddisti, una nuova rivoluzione industriale legata al digitale, da cui ci si aspetta una nuova età dell’oro, che però non sembra proprio destinato ad entrare nelle tasche di tutti, giacché, mentre è già evidente l’arricchimento di alcuni, pochi, comincia ad avvertirsi seriamente il rischio di impoverimento di molti, se non di quasi tutti.

Infatti il digitale che è a disposizione di tutti, gratis; che rende tutti connessi, iperconnessi; che facilita e sempre più faciliterà tutte le attività dell’uomo, sino al punto da rendere l’umano in larga parte, se non del tutto, superfluo è dominato da grandi gestori che, dopo la sfera dell’informazione e dell’intrattenimento, stanno attivandosi sul trasferimento dell’informazione alla produzione di cose e servizi – internet delle cose IOT – e c’è la possibilità che riescano a controllare anch’essa.

Allora questo nuovo sogno americano rischia di trasformarsi in un incubo, a meno che non si realizzi quello che rappresenta il classico rimedio rispetto alla tirannia e, cioè, la rivoluzione vera e propria. Pur non volendo dire: internettiani di tutto il mondo unitevi, non avete da perdere altro che le vostre connessioni, bisogna considerare la eventualità di riportare internet alla sua dimensione nativa, che è essenzialmente pubblica e no profit.

Così, come si è verificato più volte nel corso della storia e in varie parti del mondo di fronte ad una pre-potenza che metta a rischio la vita ordinata dei popoli e la ricchezza delle nazioni, potrebbe porsi il tema della nazionalizzazione da parte dello Stato o, meglio nel caso specifico, della comunità degli Stati o, in felice alternativa, di quello che è stato chiamato, in maniera ambigua e polisemica, la democratizzazione una volta detta industriale, oggi potrebbe dirsi connettiva.

E come potrebbe declinarsi oggi una democratizzazione connettiva? Nel campo della informazione si potrebbe pensare, come è stato già ipotizzato da qualche autore (v. Antonio Casilli avec Dominique Cardon, Qu’est-ce que le Digital Labor ?, INA, 2015, 104 p. ISBN 978-2869382299) a forme di remunerazione di quanti postano dati, notizie, foto, che risultino di valore o suscitino interesse nelle diverse comunità, ad esempio. Mentre rispetto al lavoro nel campo della produzione di beni o servizi le piattaforme abilitative del lavoro collaborativo potrebbero evolversi in piattaforme di lavoro cooperativo, riconoscendo agli operatori, cooperatori, oltre al compenso di mercato una qualche partecipazione agli utili delle diverse operazioni.

In conclusione, se dobbiamo sognare, e non possiamo non sognare, possiamo cercare di sognare un sogno sereno piuttosto che un incubo e così sperare che i grandi giocatori capiscano di dover giocare, anche nel loro stesso interesse, insieme a noi, non semplicemente con noi.