La sindrome di Peter Pan del giuslavorismo europeo

“Es necesario recordar el nacimiento y desarrollo del Derecho del Trabajo para poder realizar unas propuestas que garanticen los derechos fundamentales del trabajador en la era digital, siendo necesario un mayor protagonismo de las instancias internacionales y de los Estados para que el Derecho del Trabajo evolucione conforme a los avances de las grandes multinacionales tecnológicas”*.

È necessario ricordare la nascita e lo sviluppo del diritto del lavoro, come dice Sierra Benítez, ma non si deve sottrarre, ad esso e a noi, la possibilità di crescere e diventare adulti, anche a costo di non riconoscere più nell’adulto l’amato bimbo.

D’altronde, se è stato necessario, per tanto tempo, proteggere il lavoratore dipendente – e per certi versi lo è ancora, sia nei paesi avanzati, a fronte di nuovi e diversi rischi, che nei paesi non avanzati, a fronte anche dei vecchi rischi – non si può e non si deve escludere che il cittadino che lavora, in forme di dipendenza tradizionale o economica, possa scegliere se e come proteggersi da sé, anche rispettando poche, semplici regole.

Così, nell’era digitale, piuttosto che un maggiore protagonismo delle organizzazioni nazionali e internazionali potrebbe giovarci un minor protagonismo di tali organizzazioni in generale e, più in particolare, proprio nei confronti delle grandi multinazionali, le quali possono realizzare tranquillamente uno shopping tra ordinamenti giuridici nazionali, dai quali dipende più direttamente il diritto del lavoro.

Allora forse è meglio trovare una intesa internazionale o multilaterale sulla tassazione dei profitti delle grandi multinazionali e sugli obblighi di queste nei confronti del mercato e dei consumatori, invece di insistere sulla improbabile regolamentazione della economia della condivisione, che viene resa possibile dallo sviluppo delle piattaforme e che ha fatto diventare grandi queste multinazionali, mentre continua inevitabilmente a farle crescere e a farne nascere altre.

E questa non è una rinuncia al controllo di una situazione che coinvolge, come utenti e fornitori e comunque partecipanti, tanti cittadini di tutti gli Stati del mondo; né vuol essere una resa di fronte alla soverchiante potenza economico-finanziaria di tali entità e alla loro dilagante pervasività; ma è il semplice riconoscimento di uno stato di fatto irrevocabile e in continua, accelerata evoluzione, legato com’è alle tecnologie disruptive della produzione di beni e della fornitura di servizi.

Disruptività che non può non riversarsi sulle categorie tradizionali del lavoro e travolgerle. Perciò, con l’esperienza di Ludd, prima la accetteremo meglio sarà, perché in tal modo potremo cercare di stabilire un qualche, seppur instabile equilibrio tra il vecchio stato di quiete e il nuovo stato di moto accelerato e continuo, nel quale l’evoluzione della tecnologia digitale ha condotto l’umanità intera e dal quale possiamo aspettarci innumerevoli opportunità, anche a costo di nuovi rischi.

In particolare l’economia della condivisione non può e non deve portarci ad un defatigante esercizio di lettura delle nuove fattispecie con le vecchie categorie del diritto del lavoro, mobilitando le risorse degli interpreti e dei giudici, per arrivare ai regolatori statuali o interstatuali, i cui risultati potranno essere spazzati via da una release di algoritmo, ovvero da una riconfigurazione organizzativa della condivisione sulle piattaforme.

Bisognerebbe invece interpretare e regolamentare minimalisticamente l’economia della condivisione – che sicuramente porta grandi benefici ai gestori delle piattaforme ma da anche utilità ai vari partecipanti, specialmente a quanti sono privi di altre risorse, derivanti da un lavoro dipendente o autonomo – magari utilizzando un canone, non ignoto al diritto dei rapporti giuridici, quale può essere quello dei rapporti trilaterali o multilaterali.

In altri termini, come la condivisione non economica si basa su un rapporto peer to peer che si sviluppa attraverso le piattaforme digitali, per dir così passive, così l’economia della condivisione si sviluppa attraverso piattaforme digitali che potremmo definire attive, per il loro intervento conformativo del prodotto/servizio, di garanzia della qualità e del pagamento dello stesso, con un più o meno modesto aggio per la intermediazione.

E, se si guarda bene, senza farsi far velo dalle idee del lavoro e delle sue categorie classiche, il lavoro subordinato, autonomo e quello in collaborazione, le piattaforme digitali non sono altro che una borsa, in cui non si trattano titoli o merci, ma in cui si trattano prodotti/servizi come viaggi, trasporti, accoglienza o altro, che vengono scambiati/acquistati tra privati che, di volta in volta, possono essere produttori/fornitori o acquirenti/utenti.

Certo è che ci sono delle categorie di produttori/fornitori che, fino all’avvento delle piattaforme, avevano l’esclusiva di taluni prodotti/servizi e che, ovviamente, sono disturbati dalla concorrenza, si veda ad esempio la consorteria dei tassisti, ma noi sappiamo bene, con buona pace di costoro, che la concorrenza è benefica per tutti i cittadini, non soltanto utenti, ma anche fornitori, perché riduce i costi di transazione e aumenta la qualità dei servizi.

Inoltre, mentre abbiamo specifiche normative di tutela della concorrenza, alle quali peraltro si appellano i pregressi esclusivisti, accampando vetuste regolazioni vincolistiche, che prima contestavano, e non volendo connettere la loro esperienza con l’innovazione, come cittadini utenti e come interpreti del diritto dovremmo essere consapevoli che non è con il giustinianeo divieto dell’interpretazione che si fa vivere il diritto, ovviamente nella sua funzione di regolazione della realtà umana in un quadro di pacifica e feconda convivenza.

Una volta accettata la validità della trilateralità contrattuale e, anche, la matura responsabilità dei cittadini dei nostri paesi che, liberamente, decidano di coinvolgersi nella economia della condivisione,facendosi quindi carico direttamente della propria sicurezza, previdenza, fiscalità, potremmo affrontare agevolmente e risolvere tutti i problemi applicativi con la collaborazione che, a quel punto non mancherebbe, delle piattaforme digitali.

Tutto questo pensando che, di fronte ai salti di paradigma, non soltanto non è più vero – ammesso che lo sia mai stato – che la legge può fare tutto, salvo cambiare il bianco in nero o un uomo in donna, secondo la formula del parlamento inglese, la legge rischia di restare ineffettiva ed essere elusa, se non evasa, se non si pone in ottica di accompagnamento del cambiamento.

È vero che quest’anno ancora si celebrano i 400 anni dalla pubblicazione de “El ingenioso hidalgo Don Quijote de La Mancha” di Miguel de Cervantes ma, con tutto il rispetto della poesia del personaggio, gli ingegnosi interpreti del diritto del 21° secolo non dovrebbero combattere con i mulini a vento.

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*)E.M. SIERRA BENÍTEZ, LOS CONDUCTORES DE VEHÍCULOS PRIVADOS DE UBERPOP: UNA NUEVA SITUACIÓN DE ANOMIA LABORAL, en VVAA, El Derecho del Trabajo y la Seguridad Social en la encrucijada: retos para la disciplina laboral, Laborum, Murcia, 2016