Sull’orario di lavoro dei lavoratori subordinati, in virtù delle note vicende politiche recenti, si è molto discusso e si continuerà a discutere ancora a lungo; ma è opportuno tentare di fare una riflessione il più possibile serena ed equilibrata.
La storia dell’umanità, o meglio, la storia dell’industrializzazione ci insegna che l’orario di lavoro dei prestatori d’opera, sia pure con momenti di stasi e con momenti di accelerazione, è sempre diminuita, sta tuttora diminuendo e continuerà fatalmente a diminuire.
Allora qual’è il problema dell’Italia d’oggi? E’ un problema molto semplice e drammatico, che sarà forse chiaro dopo alcuni passaggi logici.
Dunque, se deve diminuire ancora, vediamo come e perché l’orario di lavoro è diminuito fino ad ora: con buona pace di quanti pensano alle conquiste sociali, va detto che l’orario di lavoro nell’industria è diminuito per una precisa necessità ed esigenza del capitalismo.
Così come, allo stesso tempo, sono cresciuti i salari.
Occorreva pur trovare uno sbocco crescente alla crescente capacità produttiva delle produzioni industriali e, quindi, i capitalisti lungi dal fornire le corde con le quali sarebbero stati impiccati hanno fomentato la nascita di una classe fuori classe che li ha arricchiti, sempre e comunque: la classe dei consumatori di massa.
E’ bastato, per cominciare, dare ai prestatori d’opera più danaro e più tempo libero; e poi si è continuato a dare sempre più danaro e sempre più tempo libero.
Danaro da spendere e tempo per spendere il danaro disponibile, per acquistare beni e servizi prodotti dall’industria di produzione dei beni e dei servizi, in una continua rincorsa di novità, in una continua accelerazione dell’invecchiamento artificiale dei prodotti, in una continua insoddisfazione dei proletari del consumo di massa.
Le lotte di classe, di là dalla finzione rivoluzionaria, i cui effetti sono stati talora, in qualche luogo e per qualcuno o anche per molti drammatici, sono servite soltanto alla promozione sociale di quei tanti o pochi che le hanno capeggiate; dal momento che, secondo recenti studi, molto accurati, il salario medio netto dei lavoratori italiani non è mai sostanzialmente aumentato.
Ovviamente per accettare, anche concettualmente, questa semplice quanto sconvolgente affermazione bisogna mettere il salario in relazione al fabbisogno di spesa per la vita corrente.
Chiarito che, in buona sostanza, il capitalismo liberale dell’occidente e il capitalismo orientale di Stato hanno sempre e comunque distribuito, rispettivamente, ricchezza e povertà, in maniera tassativamente funzionale ai loro scopi; resta da considerare che un capitalismo ibrido come quello italiano, o comunque un capitalismo sociale di mercato di tipo continentale europeo, presenta elementi di delicatezza speciali, su un piano di confronto internazionale dei mercati.
Infatti, se il capitalismo liberale e il capitalismo di Stato sono essenzialmente liberi nella soggezione, rispettivamente, alle sole leggi del mercato e dello Stato, il capitalismo sociale di mercato è contemporaneamente soggetto alle leggi del mercato e a quelle dello Stato e, con questa doppia dipendenza, perde capacità concorrenziale, con la conseguenza di mettere seriamente a rischio la propria sopravvivenza e la nostra occupazione.
A questo punto dovrebbe essere chiaro che il problema dell’Italia oggi non è la riduzione dell’orario, ma è che si faccia una legge dello Stato che preveda un certo orario di lavoro per tutti i prestatori d’opera da un certo, preciso momento.
Quello che assolutamente non ci serve, oggi, di fronte alla concorrenza dei mercati di tutto il mondo, è una quota 90 dell’orario di lavoro di un nuovo tendenziale regime socialnazionale.
novembre1997