La grande trasformazione del lavoro richiede una grande trasformazione del diritto – Una ipotesi di contratto e la strategia dell’accoglienza
Chi è vissuto nelle aziende o a contatto delle aziende dove si vive e si producono beni o servizi, e non nelle aule universitarie, sa bene come i giovani, anche quelli più preparati e impegnati, si trovino spaesati quando, provenendo direttamente dalle scuole o dalle università, anche le migliori, entrano in una azienda di qualunque tipo. Ed è normale che sia così, specialmente per il distacco troppo marcato tra la scuola, l’università e il mondo del lavoro.
L’azienda, l’ufficio, lo studio professionale, infatti, sono microcosmi con loro regole e schemi che, pur essendo riferibili a schemi e regole ufficiali, sono comunque vissuti in proprio, con modalità variabili e più o meno ortodosse, ma sempre animate da persone in cui si mischia variamente il vissuto personale e l’esperienza organizzativa; ben sapendosi, peraltro, quanta possa essere la componente di informalità insita in qualsiasi organizzazione, anche burocratica.
Perciò sarebbe essenziale che ogni organizzazione ben avveduta prestasse la massima attenzione a questa delicata fase di inserimento, mettendo a disposizione dei nuovi arrivati una guida, un virgilio, un tutor che guidasse i giovani nel loro percorso iniziatico e nella loro possibile ascesi, dall’inferno del noviziato, al purgatorio della routine, al paradiso della soddisfazione.
Un mentore per la crescita professionale e umana nel lavoro. Un consigliere rispettoso del loro essere come sono e del loro poter diventare qualunque cosa vogliano diventare, nel rispetto delle loro capacità.
Questa è una figura che ogni azienda dovrebbe considerare preziosa, avendo modo, con questo tramite, di trasmettere quella cultura che fa di ogni azienda un unicum, in cui sia possibile vivere una vita o, anche semplicemente, trascorrere un periodo utile a sé e all’azienda stessa. Sarebbe un personaggio che, comunque, potrebbe scongiurare l’avvento degli inevitabili lucignoli, lieti di trasmettere l’incultura aziendale agli innocenti pinocchietti.
Purtroppo, o per fortuna, se la scuola e l’università continuano ostinatamente a tenersi lontani dalla realtà del lavoro; se la società si distacca dalla vita vera dell’azienda, guardandola troppo spesso con ostilità e sempre con attenzione acuta al netto in busta e ai tanti diritti di avere piuttosto che ai doveri di dare; se il diritto, conseguentemente, regola troppo, e quindi male, i rapporti delle persone nel lavoro, l’impresa deve fare da sé, ma può farlo meglio di chiunque altro, se minimamente aiutata.
Perché l’impresa, con il complesso di beni e servizi aziendale di cui dispone, è finalizzata ad uno scopo che, fino all’arrivo dei robot tuttofare, e anche quando saranno arrivati, sarà sempre realizzabile soltanto con l’intervento di persone umane le quali, anche lavorando da casa o in agilità, anche essendo legate da contratti disparati, formeranno sempre una comunità. E sappiamo bene che qualunque comunità non può non darsi regole proprie, anche diverse e più forti delle regole ufficiali.
Allora, nella grande trasformazione del lavoro, che si sta verificando con crescente accelerazione, la cosa migliore sarebbe che la regolazione del lavoro, anche fra i tanti vincoli interordinamentali, venisse resa più leggera o, anche semplicemente, più elastica, consentendo le deroghe che l’autonomia della volontà, che presiede ai contratti, potrebbe definire nell’interesse delle parti contrattuali, anche eventualmente assistite in tale definizione e nella possibilità di arbitrare gli eventuali contrasti interpretativi, al di fuori delle aule, anch’esse troppo distanti dal mondo del lavoro, come quelle di giustizia.
Nel frattempo, anche per rimediare a quel deficit di formazione culturale, ormai universalmente riconosciuto, tra le astratte competenze scolastiche e le abilità pratiche aziendali, nel fai da te imprenditoriale potremmo riportare un concetto che siamo abituati a considerare molto positivamente, quando lo troviamo nel sociale, e cioè il volontariato e la gratuità, in altri termini la cultura del dono.
Infatti, alla luce del sostanziale fallimento di tutte le forme di inserimento al lavoro, come stage, tirocini, apprendistati, variamente sovraccaricate di regolamentazioni minute e soltanto apparentemente agevolate, a spese della collettività, potremmo recuperare la alta dignità e la piena liceità del lavoro gratuito anche nell’ambito delle attività produttive di qualunque genere, industriale, artigianale, commerciale.
Potremmo ridefinire una fattispecie nella quale il giovane si offre, o al quale si offre, di lavorare gratuitamente per un certo tempo in una certa attività, come un normale dipendente ma senza esserlo, per la quale attività dovrà ricevere una congrua introduzione, con una adeguata assistenza, nel rispetto dei canoni di sicurezza, ma senza essere remunerato e senza essere vincolato, insieme all’azienda ospite, alle tante regole dei vari schemi legali di inserimento, anche temporaneo, al lavoro.
Una fattispecie, ad orrore dei tecnici, di contratto di lavoro gratuito, nel quale il dono si sublima, come è normale che sia, nello scambio, non più come sinallagma prestazione compenso, che è la causa legale del contratto di lavoro, ma in un sinallagma altro, tra prestazione e esperienza di lavoro che, in un periodo di crisi, anche di valori, e di disagio, non soltanto giovanile, può essere un modo nuovo, per quanto sia antico, di ritrovare la dignità del lavoro, di qualunque lavoro.
E, se le famiglie investono tanto, troppo, nella scuola o nell’università per i loro figli, potrebbero investire un po’ o altrimenti in questo modo, che somiglia tanto ai modi di essere delle botteghe medievali, nelle quali le famiglie pregavano e pagavano per far prendere i figlioli a bottega, perché potessero apprendere un mestiere, come del resto si faceva, sempre a quell’epoca, nelle nascenti universitas studiorum, nelle quali erano gli studenti ad assumere i professori.
Alla fin fine si può pensare e si deve dire che i tecnici del diritto del lavoro, se lucidamente avvertono la grande trasformazione del lavoro e se acutamente colgono quanto il diritto stia divagando sul lavoro, non possono limitarsi all’esegesi della legge o alla proposta di nuove leggi, quand’anche fossero di abrogazione di vecchie leggi, ma dovrebbero farci vedere come potremmo adeguarci alla trasformazione con le leggi che abbiamo.
Se è vero, come ci hanno insegnato i maestri, che il diritto del lavoro è una scienza progettuale, dovremmo riuscire a pensare come poter realizzare un costruzione innovativa, o rinnovativa, con materiali antichi, ma sempre nel rispetto delle regole della statica e, nel caso, del diritto, anche lavorando sull’interpretazione che, secondo la lezione dei dossatori, è la forma classica di evoluzione del diritto che prescinde dal legislatore. Ed è anche la forma obbligata quando il legislatore è assente o segue miraggi.