È indubbio che, come è stato detto più volte, “siamo un paese di troppi vecchi, governato da troppo vecchi”. Tutte le statistiche concordano sul fatto che il nostro è un Paese in cui l’età media è tra le più alte al mondo e ampia concordanza c’è anche sul fatto che posti di alta responsabilità o, per dir meglio, di potere si ottengono soltanto in età avanzata. E questo vale per gli uomini e le poche donne ai vertici e vale in tutti i settori sociali: nell’amministrazione pubblica e nella politica, nell’economia e nella finanza, nell’università e nella ricerca e vale anche nelle nostre aziende.
Allora, se tutto ciò è frutto di una cultura dominante, a cui il potere ha fornito le più adeguate sovrastrutture – secondo una lettura marxista – nuove leggi non dovrebbero limitarsi a misure, per dir così, emollienti ma dovrebbero minare le basi di queste sovrastrutture. Non si tratta di “sparare sul quartier generale”, riproponendo i termini della rivoluzione culturale cinese con questo slogan maoista, ma di lanciare una rivoluzione liberale, meglio ancora, libertaria che possa sfrenare le forze vive della nostra società, in particolar modo le forze giovanili e femminili.
A tal fine, sarebbe il tempo di pensare, anche secondo uno schema di sussidiarietà verticale, ad un maggior coinvolgimento dei giovani e delle donne nelle politiche locali, nella gestione delle città, dei servizi, della scuola, stimolando i volenterosi e meritevoli a farsi avanti, a farsi valere, a farsi notare e, necessariamente, riconoscendo il loro merito a prescindere da qualsiasi appartenenza. E sarebbe il tempo di eliminare il professionismo politico come di rendere temporanei tutti gli incarichi direttivi.
D’altronde la globalizzazione non è altro che concorrenza a tutto campo e, se vogliamo farvi fronte, dobbiamo immettere concorrenzialità in tutte le nostre attività, pubbliche e private ma, soprattutto, in quelle di servizi, compresa la pubblica amministrazione, con vere liberalizzazioni e non semplici trasformazioni dei vecchi monopoli in nuovi oligopoli; dobbiamo spingere al massimo sulle semplificazioni anche contenendo, per quanto possibile, l’iperregolamentarismo della Unione europea.
Ovviamente il mercato per essere libero deve essere regolato, ma le regole devono essere poche, chiare, applicabili e applicate rigorosamente dalle autorità preposte. Inoltre, anche le madri e i padri italiani dovrebbero essere capaci di andare oltre quel familismo amorale che, secondo De Rita, caratterizza la società italiana, dando finalmente luogo ad un sistema meritocratico. Come scrivevano Mosconi e Clementi in un articolo apparso in un vecchio numero de Il Mulino, è proprio meritocrazia “una delle parole chiave” con cui fare i conti “nelle nostre società contemporanee e, a maggior ragione, in un paese bloccato qual è l’Italia”.
Infatti questo “…è quello che – sono sempre Mosconi e Clementi che scrivono – possiamo chiamare il problema dell’ascensore. Alla base troviamo il ‘modello sociale’ che un paese riesce ad edificare: quel modello deve tendere a realizzare, nella misura massima possibile, l’eguaglianza di opportunità per i cittadini. Salendo verso l’alto, vi è la mobilità sociale promossa, garantita o incentivata, da quel modello: mobilità che pensiamo rivolta in special modo alle giovani generazioni (che non partono ovviamente dai 40 anni in su!). In questa nostra immagine ideale, – scrivono ancora Mosconi e Clementi – il legame, il passaggio fra un piano e l’altro è – e deve essere – assicurato dal merito. È il merito il criterio principe (l’’ascensore’ appunto) che presiede alla formazione della classe dirigente e, per tale via, promuove un più alto grado di mobilità sociale. Ed è il merito che, a sua volta, chiama in gioco la ‘fabbrica degli ascensori’, vale a dire il sistema educativo nel suo complesso: ecco il filo rosso, – un filo rosso ben diverso da quello che Croce riconosceva a merito di Marx, ndr – sottile ma resistente, che tiene insieme i due livelli”.
Pertanto bisognerebbe inquadrare bene l’obbiettivo della promozione dei giovani, quando ci si riferisce ai problemi di accesso alla cultura e alla ricerca e, soprattutto, di accesso alle professioni ma, anche così, ci si aggirerebbe soltanto nella periferia dei problemi, senza arrivare al loro centro. Infatti qualcuno pensa – e persino molti cattedratici pensano – che, per far partire l’ascensore della cultura e della ricerca, prima di tutto noi dovremmo abolire il valore legale dei titoli di studio; praticando così, anche sulla pianta gerontocratica dell’università e, in genere, della scuola italiana, quell’innesto di concorrenzialità e di meritocrazia che, altrimenti, sarà ben difficile, se non impossibile, far fiorire e fruttificare.
E come sarebbe bello poter tornare allo spirito originario dell’università (universitas discipulorum et magistrorum) in cui erano i discepoli che sceglievano e pagavano i docenti! Del resto né Croce né Prezzolini, che in diverso modo hanno dato tanto alla cultura italiana, erano laureati e neppure Einstein e altre grandi menti del ‘900 lo erano.
Poi potremo affrontare, il tema del sostegno allo studio fino ai più alti gradi, per i capaci e meritevoli come recita l’art.34 della nostra carta costituzionale “La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”.
Ma, anche in questo caso, sarebbe meglio agire favorendo l’intervento della società civile, piuttosto che richiedendo esclusivamente, come di consueto, l’intervento dello stato. Promuovendo invece un sistema di borse di studio da parte delle imprese, dei privati, delle fondazioni bancarie e, ancor più e meglio, attivando un sistema dei prestiti d’onore, anche in un’ottica di fondo di rotazione che inneschi la solidarietà intergenerazionale.
Altrettanto si potrebbe fare, per quanto riguarda l’accesso alle professioni, prevedendo l’abolizione degli ordini professionali corporativi, salvo il caso in cui si incida sulla pubblica fede, in sintonia con le disposizioni comunitarie sulla difesa della concorrenza. E, anche per quanto riguarda lo svolgimento effettivo dell’attività professionale che, comunque, richiede un periodo di avviamento più o meno lungo e faticoso, potrebbe tornare utile il sistema dei prestiti d’onore.
A questo proposito, come del resto nell’accesso all’impresa, viene in ballo la mancanza di una vera e propria cultura del rischio del nostro sistema economico e finanziario nell’ambito del quale non si ritrovano, in Italia, quelle organizzazioni di venture capital che hanno fatto la fortuna di tanti grandi imprenditori americani, essendo capaci di puntare sulla qualità delle persone, sulla qualità delle idee, sulla qualità dei progetti.
Purtroppo non manca soltanto la cultura del rischio, come detto, ma manca ancora la cultura di una responsabilità sociale dell’impresa. Quella responsabilità in base alla quale qualunque impresa di un territorio, oltre a farsi carico della produzione profittevole di beni o servizi, creda giusto e opportuno farsi carico di un qualche altro progresso sociale del territorio.
Si torna così, inevitabilmente, sui temi della cultura popolare italiana, intesa qui come visione generale del mondo e della vita (weltanschaaung). Infatti, se eravamo abituati a dare per scontato un ampio divario tra le generazioni, in base a non recenti ricerche cofinanziate dal MIUR, a cui si richiama Loredana Sciolla in un articolo apparso, anche questo, su un vecchio numero de Il Mulino, dobbiamo accettare “che oggi il fossato che separava le generazioni si è in gran parte colmato”.
Quindi la condizione delle famiglie italiane con tutti i giovani, sempre meno giovani, che continuano a vivere in casa non è soltanto un fenomeno indotto dal mercato del lavoro, sempre più ricco di incertezze, o dal mercato delle case, sempre più difficile, finanziariamente parlando, ma è certamente un fenomeno più complesso in cui, oltre la pacificazione generazionale, ha forte incidenza, ancora una volta, il fattore culturale.
Una cultura, se si può usare il termine in questo senso, del superfluo e della non responsabilità. Nella quale è la ricerca della “sicurezza” piuttosto che il rischio ciò che connota la società italiana: tanto le imprese finanziarie, quanto gran parte degli italiani, giovani e meno giovani.
Mentre oggi, bisognerebbe riuscire a coniugare equilibratamente responsabilità individuali e responsabilità sociali, costruendo insieme un nuovo quadro di certezze in cui al posto dell’avere sia messo l’essere; le capacità professionali anziché il posto di lavoro; la consapevolezza delle proprie capacità anziché il titolo di studio; la voglia di impegnarsi a costruire il proprio futuro nella consapevolezza che, se il successo arriderà all’impegno o, meglio, al merito, sarà un bene per tutti, ma non ci saranno marchi d’infamia per l’insuccesso e ci si potrà sempre riprovare.
E ciò seguendo il motto antieroico di Archiloco: che importa, se in battaglia getto lo scudo e scappo, se mi salvo posso sempre tornare a combattere per il mio Paese e vincere.
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