“I lavoratori italiani possiedono un basso livello medio di competenze e hanno, rispetto a quanto avviene in altri paesi, minori probabilità di utilizzare specifiche competenze cognitive, che sono importanti nella performance dei lavoratori e delle imprese. Queste carenze si ritrovano anche tra laureati italiani”, spiega il report Ocse “Strategie per le competenze“.
Il fallimento viene rinominato liquidazione giudiziaria e, di là dal cambio di nome, che dovrebbe rimuovere il marchio di infamia che si suole collegare al termine fallimento, inteso come sconfitta e colpa della persona, piuttosto che legato al fatto della mancata riuscita dell’impresa, è stata così, finalmente, riconfigurata nei modi e nei tempi la risposta alla crisi del soggetto produttivo.
Però possiamo sempre usare questo termine proprio per indicare quelle imprese o istituzioni che, anche a prescindere da un mercato o perché fuori mercato, non hanno raggiunto il loro obbiettivo malgrado, o forse proprio per le migliori intenzioni dei loro gestori. Così potremmo definire fallito, sia commercialmente che non commercialmente, lo Stato italiano, avendo mancato l’obbiettivo primario di fare gli italiani.
Rammentiamo, in primo luogo, la atavica questione meridionale, la susseguente questione settentrionale e, poi, mille altre questioni come, ad esempio: lo statalismo pervasivo, il finto federalismo, la mancata sussidiarietà, il trasformismo politico, il formalismo burocratico, il parassitismo clientelare, il familismo amorale, il piagnisteismo vittimistico, il profluvio normativo spesso criminogeno, la cultura dell’irresponsabilità e la miseria della cultura.
E, a proposito di cultura, pensiamo come essa sia magnificata a parole, anche in relazione alla grande bellezza e al magnifico passato, e mortificata nei fatti, anche con le azioni distruttive o le trascuratezze omissive, ma soprattutto come non sia fatta vivere – nel senso crociano della storia – come presente, ovvero non come magazzino di museo ma come museo vivente.
Mentre se non ci fosse questa ottusa cultura della miseria, da eredi con beneficio d’inventario, potremmo giovarci ben altrimenti della nostra eredità. Tuttavia, anche inconsapevolmente e immeritatamente, sia geneticamente che epigeneticamente, restiamo portatori sani di antichi valori, attitudini, abilità che, pur nella liquidazione permanente, fanno sopravvivere la metternichiana espressione geografica che è l’Italia come un grande paese.
Peraltro, di là dalla crisi dello Stato (moderno) nazionale e da quella della aggregazione europea, di là da tutte le crisi che ci invadono in continuazione, di là da tutte le debolezze di una politica senza visione, almeno un problema dovremmo affrontare, per rimediare o quanto meno ridurre il tasso di pensiero debole o depensiero che ci affligge e condiziona le giovani generazioni.
Mi riferisco alla scuola, in tutti i suoi ordini e gradi, con tutti i suoi vizi e difetti, altamente deleteri non soltanto per la formazione dell’individuo e del cittadino ma anche e, soprattutto, per l’equilibrio sociale, perché questa deformazione scolastica comporta una parallela deformazione sociale e politica, di cui vediamo gli effetti nocivi ogni giorno, tutti i giorni, e sempre più nocivi.
Certamente non possiamo chiudere le scuole, né possiamo pensare ad una rivoluzione (permanente) da tabula rasa, ma nemmeno ci può salvare una (ennesima) riforma, anche incisiva, che ci porterebbe a vederne i frutti, forse più succulenti, soltanto dopo alcuni lustri. Invece potremmo adottare uno schema da pronto intervento con una liberalizzazione ad assetto variabile.
Perché non provare ad immettere concorrenzialità nel quasimercato dell’istruzione e a farlo diventare un mercato vero e proprio e vediamo l’effetto che fa? A partire dalla scuola primaria per arrivare all’università. Ma soprattutto e prima di tutto bisognerebbe pensare all’istruzione tecnica e alla formazione professionale che potrebbe, almeno in parte, essere affidata alle imprese che producono beni e servizi, da sole o eventualmente organizzate.
In definitiva non abbiamo da perdere altro che le nostre catene.