Riflessioni sulla formazione

Se è vero che il capitale umano è fattore strategico per la ricchezza delle nazioni, allora non possiamo nasconderci che la nostra nazione è avviata a larghi passi verso la povertà, se non cesserà questa colpevole dissipazione del capitale umano e se non si ricostruirà una logica della formazione rispondente alla realtà effettuale.

La cultura del nostro paese si è basata su scuole di élite, i licei, che davano le basi della conoscenza generale e i fondamenti di un metodo dello studio in senso lato, e su scuole tecniche, gli istituti professionali, che davano quasi esaustivamente una conoscenza specifica e i rudimenti di una competenza operativa; l’università, poi, dava prima agli uni e, successivamente, anche agli altri le vette delle conoscenze specifiche e la competenza, talvolta l’abilità, del metodo scientifico.

È stata una grande cultura, che ha consentito al nostro paese di raggiungere livelli di sviluppo impensabili, data la scarsa dotazione di materie prime.

Resta una grande cultura che, pur essendo ormai fuori dal mondo attuale, riesce ancora, malgrado tutto, a produrre eccellenze in rare isole di competenza, legate a singoli maestri o a occasionali ridotte di resistenza al vecchio.

Ma è essenzialmente una cultura, nel senso di istituzioni della cultura, che si nutre di se stessa, che vive della società che la paga ma non vive nella società, che dà quanto più possibile a se stessa e quanto meno possibile agli altri, è una cultura essenzialmente sterile e fondamentalmente nociva avendo altresì mutuato dalla società civile una prassi antimeritocratica, clientelare, nepotistica.

I professori universitari che, occasionalmente, discettano della crisi dell’università di cui hanno fatto e continuano impunemente a fare parte, dicono autorevolmente, dall’alto o dal basso della loro esperienza di vita universitaria, che l’università, come struttura corporativa, è praticamente irriformabile.

I professori delle scuole medie che, nel tempo che resta loro libero dallo scarso impegno lavorativo e dal ben più sentito impegno rivendicativo, discettano anch’essi sulla crisi della scuola media criticano soltanto, in vario modo, i goffi tentativi ministeriali di governare il corpaccione inerte della pubblica istruzione e le normative ireniche del legislatore di belle speranze.

Gli operatori di quella scuola minore che è la formazione professionale criticano anch’essi tutto e tutti ma, con lodevoli eccezioni, anche se stessi e il sistema perverso nel quale sono e, per convenienza, restano immersi.

Allora che vogliamo fare? Vogliamo chiudere le scuole, tutte? O vogliamo cercare di trovare una soluzione realmente praticabile in tempo medio/breve?

In questo tempo di crisi economica generale, in questo tempo di competizione globale, in questo tempo in cui si confrontano i produttori e i sistemi paese di tutto il mondo, quando viviamo di giorno in giorno senza più certezze dell’avvenire, quando parliamo continuamente di concorrenza, di liberalizzazioni, di privatizzazioni, perché non vogliamo provare ad innescare la concorrenza anche nell’ambito della cultura?

Sfruttiamo a tal fine le idee del federalismo e della sussidiarietà, tornando a quella universitas studentorum (e familiarum) delle origini, rendiamo autonome le singole scuole e università, in medio tempo anche riguardo al reclutamento, e commisuriamo le risorse destinate a ciascuna ai buoni scuola che gli studenti e le loro famiglie potranno spendere, finendo ovviamente per chiudere le scuole e le università che non raccogliessero sufficiente consenso.

Questa non è una idea nuova, ed è stata criticata facilmente, ipotizzando la tendenza degli studenti e delle famiglie a preferire quelle scuole che facilitino il conseguimento del titolo di studio, e criticata giustamente nel presupposto del valore legale del titolo di studio, ma questa critica verrebbe meno totalmente se il titolo di studio non avesse più alcun valore legale.

Una volta recepito il fatto che non ci fosse più alcun pezzo di carta che garantisse astratte conoscenze o, addirittura, competenze, si farebbe strada inevitabilmente l’idea che un istituto di cultura debba dare qualcosa che possa essere speso nel mondo del lavoro e delle professioni e, per carità di patria, non parliamo degli ordini professionali.

Un istituto di cultura deve dare conoscenze, competenze, abilità, generali o specifiche, deve chiaramente proporre un percorso per ottenere le une o le altre o entrambe, in che ambito e a quale scopo, e deve assicurare che, al termine del percorso correttamente svolto, l’acquirente ottenga ciò che è stato promesso.

La rivoluzione culturale sta nel cessare, da parte degli istituti di cultura a tutti i livelli, di focalizzarsi sull’insegnamento per concentrarsi, invece, sull’apprendimento.

Il mondo normale lavora per obiettivi, perché il mondo della cultura, a tutti i livelli, non deve darsi degli obbiettivi riscontrabili, non in generiche licenze o diplomi di singole istituzioni, ma in specifiche, elencabili secondo un abaco tutto da immaginare, conoscenze, competenze, abilità, senza escludere un elemento, che è sempre stato estraneo alla scuola e presente soltanto vagamente nella formazione, ma che è sempre più importante coniugare con il sapere e il saper fare, che è il saper essere.

Nuovi istituti di cultura che lavorassero con simili obbiettivi potrebbero opportunamente raccordarsi, curricolarmente o extracurricularmente, con le realtà produttive del territorio, per estendere o implementare, anche successivamente alla conclusione di un, primo, ciclo formativo, le conoscenze e le competenze, lasciando lo sviluppo delle abilità all’ambito produttivo.

Attivando così anche un circolo virtuoso di tipo dualistico, come alternanza scuola/lavoro o come formazione continua, all’interno e/o all’esterno dei luoghi di lavoro, e di scambio tra i tecnici dell’insegnamento e i tecnici della produzione, come pure tra le aree della ricerca e le aree dell’applicazione.

Bisogna metabolizzare in maniera assolutamente generale, intendendo che non ci siano eccezioni di sorta, il senso della incertezza e, quindi, della precarietà che porti non ad uno sterile scoraggiamento, ma ad una continua rincorsa da una parziale certezza ad un’altra: quello soltanto di cui dobbiamo essere certi è proprio dell’incertezza in cui viviamo e nell’ambito della quale dobbiamo continuamente cercare di costruire un miglioramento di noi stessi e del mondo che ci circonda.