“Art. 1 – L’offesa deve essere vendicata. Non è uomo d’onore chi si sottrae al dovere della vendetta, salvo nel caso che, avendo dato con il complesso della sua vita prova della propria virilità, vi rinunci per un superiore motivo morale”.
“Art. 7 – La vendetta deve essere eseguita solo allorchè si è conseguita oltre ogni dubbio possibile la certezza circa l’esistenza della responsabilità a titolo di dolo da parte dell’agente”.
“Art. 18 – La vendetta deve essere proporzionata, prudente e progressiva. (…)”
Questi sono gli articoli basilari del Codice della vendetta barbaricina, così come riconosciuto da Antonio Pigliaru, sulla scorta di attente ricerche, nel suo libro sul banditiamo sardo, che contiene il capitolo sulla vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, nel solco dell’istituzionalismo di Santi Romano.
Ma, sia ben chiaro subito, il codice barbaricino non è il codice dei banditi, per quanto un codice malavitoso sarebbe egualmente funzionale al nostro discorso; è il banditismo che storicamente deriva dalla applicazione del codice barbaricino, dal momento che l’ordinamento giuridico italiano non riconosce l’ordinamento barbaricino – come non riconosce l’ordinamento cavalleresco – e, quindi, contesta ai balenti le violazioni del diritto penale commesse nell’applicazione delle regole del codice della vendetta – come contesta il duello – costringendo i balenti a rendersi latitanti e, spesso, a trasformarsi in banditi.
Infatti, come insegna Santi Romano (L’ordinamento giuridico, 1^ ed. Pisa 1918; 2^ ed. Firenze 1946 Sansoni p. 43, s.): “ogni forza che sia effettivamente sociale e venga quindi organizzata si trasforma per ciò stesso in diritto. Che, se essa, come talvolta accade, si esplica contro un’altra istituzione, ciò può essere un motivo perchè le si neghi il carattere giuridico o la si consideri addirittura come antigiuridica dall’istituzione, cioè dall’ordinamento contro cui si rivolge e opera come forza disorganizzatrice e antisociale: ma è viceversa un ordinamento giuridico, quando si prescinde da questa relazione e da questo punto di vista e la si consideri in sè, in quanto irregimenta e disciplina i propri elementi”.
Se, poi, sempre in base all’insegnamento di Santi Romano, l’instaurazione di un ordinamento giuridico è di fatto; “legittimo è solo quell’ordinamento cui non fa difetto non solo la vita attuale ma altresì la vitalità” (S. ROMANO, L’instaurazione di fatto di un ordinamento costituzionale e la sua legittimazione, Modena 1902, ora in Lo Stato moderno e la sua crisi, Milano 1969 Giuffrè p. 97) e quel riconoscimento popolare che non è un atto giuridico ma un fenomeno (ibid. p. 98), in altri termini, dopo l’instaurazione bisogna verificare l’effettività dell’ordinamento giuridico.
E, secondo Pietro Piovani (Il significato del principio di effettività, Milano 1953 Giuffrè p. 5): “principio, regola o criterio di effettività (…) è quel principio, o criterio, in base a cui si considera legittimamente costituita la comunità politica, nella quale esiste un governo che, per un periodo di tempo prolungatosi senza soluzione di continuità, esercita organicamente uno stabile, palese potere, realmente obbedito dalla maggior parte dei soggetti viventi nell’ambito della comunità medesima”.
Pertanto, se l’ordinamento giuridico cavalleresco ha perso completamente vitalità nell’ambito delle società occidentali e la stessa comunità che, per secoli, ha rispettato le sue norme, la comunità dei gentiluomini, non esiste più; se l’ordinamento giuridico della vendetta barbaricina ha, forse, ancora una sia pur ridotta vitalità nelle comunità pastorali nell’ambito delle quali è sorto e ha avuto vigore per decenni; l’ordinamento giuridico italiano, le cui innumerevoli norme positive sono sempre più spesso e più ampiamente violate dalla maggior parte dei membri della comunità nazionale, come risponde al requisito della effettività?
La risposta a questa domanda non può essere che positiva. Infatti il criterio della effettività non è riferibile a tutte le singole componenti normative dell’ordinamento, ma è riferibile soltanto all’ordinamento nel suo complesso; inoltre non può essere fatta una verifica del principio di effettività in termini assoluti, ma solamente in termini relativi.
Bisognerebbe che ci fosse modo di poter confrontare la quantità dei soggetti viventi nell’ambito della comunità nazionale obbedienti al governo esistente, con la quantità di soggetti eventualmente obbedienti ad altro governo.
Ciò non di meno resta forte il dubbio se, in una situazione in cui è tanto basso il grado di attuazione di tanta parte dell’ordinamento giuridico, non possa sopravvivere un’autorità contrastante con quella legittima; la qual cosa dicesi rivoluzione.
Ma in Italia non c’è mai stata una rivoluzione. E’ possibile che ci sia una rivoluzione nel 2000? Sembra proprio di no. Eppure, se gli italiani fossero uomini d’onore, a fronte di tutte le offese patite, dovrebbero porre in atto una vendetta tremenda.
maggio1999