Rispetto alla grande trasformazione del lavoro, che si sta sviluppando, sorge il dubbio che tutto questo percorso si dipani prescindendo da quelli che sono stati, da quando il lavoro è stato organizzato fordisticamente e postfordisticamente, fino alla attuale dimensione di industria 4.0, i protagonisti dell’ordinamento intersindacale. Mi riferisco alle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro che, in tutt’altre faccende affaccendati, sembrano stare a guardare.
E non assumono né un ruolo guida, come un tempo pretendevano di sapere e di dovere assumere né, quanto meno, un ruolo di accompagnamento, dei lavoratori e dei datori di lavoro, in questo delicato passaggio verso una nuova normalità, abdicando sostanzialmente al loro ruolo di corpi intermedi e lasciandoli praticamente indifesi di fronte a quella che, una volta, si chiamava maestà della legge ma che, più banalmente possiamo chiamare, volontà di governo.
Qualcuno potrà dire che esiste una precisa volontà politica di svalutazione ideale e di depotenziamento operativo dei corpi intermedi, e finanche degli stessi partiti politici, verso nuove soluzioni leaderistiche che, forse, sono la necessaria conclusione di una troppo lunga stagione di consociativismo inconcludente e tutt’altro che inclusivo, tenendo conto dei tre gruppi individuati da Ricolfi: garantiti, inclusi ed esclusi, a cui va aggiunto il microgruppo (1%) dei privilegiati.
Ma sappiamo bene che nessuna volontà politica, nemmeno la più feroce, può impedire alle idee di vivere e di circolare, se queste idee sono buone e intercettano i bisogni delle persone; forse potranno non avere la viralità di un tweet, ma potranno comunque stimolare una riflessione e delle azioni che nella dimensione del collettivo, quale è pur sempre quella del lavoro, anche il più individualizzato, potrebbero essere coordinate.
Allora se i soggetti dell’ordinamento giuridico hanno troppo da fare per poter pensare e se non credono che, a fronte di una grande trasformazione del lavoro, non possa non esserci – per quanto in ritardo – una grande trasformazione delle loro organizzazioni, soltanto gli studiosi del lavoro trasformato, o in trasformazione, possono, e forse devono, assumersi l’onere di una ricerca e di una proposta.
La ricerca
Abbiamo vissuto tutto il dopoguerra nel mito della contrattazione collettiva, a cui si aggiungeva nella media azienda una contrattazione integrativa o, in casi particolari, una contrattazione territoriale, a cui seguiva in qualche caso, ma più frequentemente di quanto non si creda, specialmente nella piccola impresa, una contrattazione individuale. Non escludendosi mai, se del caso, un ricorso al giudice per ottenere altre acquisizioni.
E questo rito della negoziazione o lotta continua, sempre più stanca e misera, ha sostenuto il mito delle nostre organizzazioni (post)corporative fino ad oggi, con poche varianti di dettaglio tra i tempi di durata dei contratti e i postumi di scala mobile; tra i “nuovi” diritti di consultazione e di inclusione di soggetti più deboli, tra i soggetti deboli; tra “nuove” organizzazioni del lavoro e relativi inquadramenti classificatori.
Tutte piccole, grandi tempeste in bicchieri d’acqua che ci hanno portato sempre, secondo quanto ci hanno indicato gli esperti di statistica, ad una invarianza del potere d’acquisto dei lavoratori che, ora, giustamente, pensano bene di poter fare da sé, senza inutili rappresentanze sindacali; così come pensano i datori di lavoro che, a parte la possibilità di incontrarsi e di avere qualche servizio reale, non trovano più una vera rappresentanza di categoria.
Allora perché non smettiamo di recitare la messa sindacale in latino e cominciamo a officiarla nella lingua corrente, come fa la Chiesa cattolica romana dall’epoca del Concilio Vaticano II di cinquant’anni fa, che il Papa vuole celebrare con il Giubileo straordinario di questo 2015?
Perché non prendiamo tutti i contratti collettivi e cerchiamo di realizzare una silloge di tutti gli istituti contrattuali, parte generale e parte normativa, contenuti nei vari contratti, per vedere quali sono gli standard, annotando contemporaneamente gli scostamenti, così da avere una base sicura per procedere ad una riforma generale della contrattazione? Seguendo il principio di assecondare il cambiamento, per evitare di esserne travolti.
La proposta
Fare, 90 anni dopo, un nuovo “contratto dell’impiego privato” (e pubblico) con cui, a livello interconfederale, fissare tutte le regole di gestione dei rapporti di lavoro, in maniera più dettagliata rispetto al codice semplificato del lavoro, proposto da Ichino e di cui, malgrado tutto l’impegno anche di ADAPT, si sono perse le tracce.
Ridefinire le regole che la contrattazione, quando c’è, deve avere; ovvero la impegnatività nel periodo dato; la non ripetitività, salvo esplicito rinvio e salvo quanto appresso, tra un livello e l’altro; la esigibilità delle regole, con gli opportuni rimedi. Fissando magari anche le regole di raffreddamento e di conciliazione o arbitrato dei conflitti, collettivi e individuali.
Lasciando così alla contrattazione di settore, necessariamente ridotta ad una dimensione frazionale rispetto agli oltre 400 settori attuali, la possibilità di contrattare i salari e gli stipendi minimi ed, eventualmente, ma in un quadro di riferimento unitario, gli inquadramenti di mestiere; ferma restando la possibilità delle intese derogative, fino all’alternatività tra contratto nazionale e contratto aziendale o territoriale.
Così facendo le Parti sociali dimostrerebbero, anche a chi non volesse vedere, di essere vive e vitali. Aprendo una nuova stagione della loro e della nostra vita.