La cultura di impresa

Possiamo definire la cultura come l’insieme di conoscenze che formano il bagaglio di un popolo in un certo momento e, così, possiamo parlare di culture identitarie. Ma possiamo scandire il termine cultura anche nel tempo o nello spazio, così come possiamo leggerlo fuori dal tempo e dallo spazio, in maniera di erudizione o enciclopedismo, specialmente se riferito a singoli individui o a piccoli gruppi. Infine possiamo declinare la cultura in termini quantitativi e qualitativi, generalistici e specialistici, e possiamo arrivare alle culture iniziatiche.

Allora noi possiamo pensare alla cultura di una azienda come quella di una comunità, che ha uno scopo e deve perseguire un risultato. Secondo le definizioni legali del nostro codice civile “l’azienda è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa” (art.2555), “è imprenditore chi esercita professionalmente una attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi” (art.2082) e “l’imprenditore è il capo dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori” (art.2086). Così si connette il complesso di beni, materiali e immateriali, che compongono l’azienda con il gruppo delle persone che collaborano con l’imprenditore per il successo dell’impresa, ovvero l’utile produzione o scambio di beni o servizi.

Il riferimento al codice civile vuol essere non un richiamo ai sacri principi dell’esercizio del potere direttivo, ma un ritorno alle basi giuridiche della nostra convivenza nazionale e alla storia del lavoro e della sua organizzazione. Basti sottolineare i termini “capo” dell’impresa e dipendono “gerarchicamente” per capire il punto di partenza del legislatore del 1942 e confrontarlo con la realtà del 21° secolo. D’altro canto la legge è ben fatta se, pur rispecchiando la cultura del suo tempo, non esclude una interpretazione evolutiva o, comunque, il prudente apprezzamento del giudice che è richiesto in sede di giudizio.

Basti leggere la limpida formulazione della norma base della sicurezza sul lavoro: “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro” (art.2087), per capire l’inutile superfetazione normativa realizzata con la legge (penale) sul mobbing e sullo stalking, le cui fattispecie si sarebbero potute facilmente ricomprendere nella tutela della “personalità morale dei prestatori di lavoro”  del 1942 e, anche, per capire la eccessiva prudenza di apprezzamento eccezionalmente dimostrata dai giudici in questi casi aziendali.

Inoltre il richiamo al codice è importante perché, anche se non ce ne rendiamo conto, tutta la nostra vita civile è tessuta sulla trama delle norme giuridiche, di quello che nella cultura continentale dicesi diritto positivo, nascendo dal diritto romano, passando dalle codificazioni napoleoniche e arrivando ai moderni sistemi  costituzionali, per distinguerlo dai sistemi di common law di cultura anglo-sassone, basati sulla regola del precedente giurisprudenziale.

Se, invece, ci riferissimo alla filosofia del diritto e, particolarmente, alla teoria del realismo giuridico o istituzionalismo che, pur essendo accostabile al realismo giuridico scandinavo, è propriamente italiana, essendo basata sul testo di Santi Romano, L’ordinamento giuridico (Pisa 1917), non avremmo bisogno di richiamarci a leggi per dare una base alla comunità, perché sarebbe la comunità stessa la base della legge, quanto meno della sua legge.

Tornando quindi alla cultura di impresa, o meglio alla cultura della comunità di impresa, intendendo cultura l’insieme dei costumi, delle credenze, degli atteggiamenti, delle abitudini, delle conoscenze, dei valori, degli ideali, la prima domanda da porsi è se essa possa essere data. La risposta è senz’altro negativa, in senso generale, nel senso di qualcosa dato una volta per sempre, anche se gli imprenditori, più o meno megalomaniacamente, possono vedersi come dii che danno le loro tavole di comandamenti in nuovi e diversi Sinai.

Infatti, una cultura sarà sempre qualcosa che, come una pianta, pur nascendo dallo specifico seme, piantato in quel dato posto e in quel dato momento, per volontà di chi o di quanti hanno voluto che nascesse, crescerà da sé e sarà, come è altrimenti definita la legge, una volontà depsicologicizzata e, soprattutto, collettiva. Chi ha voluto che la pianta nascesse potrà innaffiarla, sostenerla, curarla, difenderla, potarla, o persino tagliarla, bruciarla o sradicarla, ma non potrà mai impedire che la pianta cresca e muti come è nella sua natura, inevitabilmente comunitaria. Allora la cultura della comunità di impresa sarà necessariamente ermafroditica e si autofeconderà.

La seconda domanda che, forse, doveva precedere il ragionamento stesso, è semplice: se la cultura di impresa è una forma di cultura, perché non lasciamo agli storici il compito di descriverla, come qualunque altro evento umano? Ma anche in questo caso la risposta può essere semplice: dobbiamo parlare di cultura di impresa perché la viviamo tutti i giorni e saperne di più ci serve a vivere meglio, sia la vita che il lavoro.

Oltre settant’anni fa si parlava di “capo” dell’impresa in una visione quasi demiurgica e di dipendenza “gerarchica” in uno schema di tipo militaresco, oggi, praticamente archiviato il modello organizzativo improntato a comando e controllo, si parla di leadership, di partnership, di developership, si parla di organizzazioni di apprendimento, organizzazioni creative, organizzazioni piatte.

E, in questo nuovo scenario, è determinante la collaborazione di tutti per il successo dell’impresa; una collaborazione attiva, costruttiva, ideativa; una collaborazione in cui tutti possano interloquire e proporre miglioramenti e innovazioni; una collaborazione in cui nessuna domanda è indiscreta, ma soltanto le risposte eventualmente lo sono.

La cultura d’impresa, allora, è l’etichetta, le regole, lo standard dell’organizzazione che servono a dare risposte in automatico alle domande usuali, ma anche il modulo del confronto tra i responsabili e gli operatori, oltre che tra gli operatori stessi, per dare risposte alle domande non usuali e, infine, per verificare, di tanto in tanto, se vi siano risposte nuove alle stesse domande usuali.

Essa è tutto ciò che serve a fronteggiare l’ordinario ma anche lo straordinario, le presenze ma anche le assenze, il vecchio e il nuovo e via discorrendo. È tutto ciò che muta rispetto a ciò che rimane fermo, almeno fino a diversa determinazione, ovvero i valori di fondo e gli ideali massimi. È tutto ciò che, fatte le debite proporzioni, potrebbe essere definito il principium individuationis (principio di identità=io sono io) dell’organizzazione.

La terza e ultima domanda, invece, è difficile e rispetto ad essa può essere data soltanto una indicazione di tendenza, perché la risposta a questa domanda dovrebbe essere di competenza di quegli storici di cui abbiamo parlato sopra, utilizzando le loro classiche tecniche. Purtroppo fare la storia del quotidiano è arduo, se non impossibile, e quella della cultura di impresa è piuttosto cronaca che storia, allora bisogna seguire un diverso metodo per identificare la specifica cultura della singola impresa.

Un metodo di tipo induttivo, se non proprio investigativo, osservando, riflettendo, sommando gli indizi finché il quadro non si definisce in termini probatoriamente convincenti, sempre accettando la regola del prevalente e del probabile e sempre in una logica di approssimazione progressiva. Ciò non toglie che il percorso euristico è comunque un percorso fecondo in sé ed è da faresi azienda per azienda.

C’era una volta un vecchio contadino che i figli avevano abbandonato per andare in città diverse, ciascuno alla ricerca della propria fortuna. Quando il vecchio contadino, dopo una lunga malattia che lo aveva costretto ad abbandonare la cura dei campi per lunghi anni, sentì che la morte si avvicinava, fece chiamare i suoi figli e, una volta che questi si erano raccolti al suo capezzale, disse “figli miei vi ho fatto chiamare perché sento che, ormai, il mio tempo sta per finire e volevo rivedervi un’ultima volta ma, soprattutto, volevo rivelarvi un segreto: nella mia, ormai vostra, proprietà è sepolto un grande tesoro, anche se io non sono più in grado di dirvi esattamente dove, ma voi lo troverete senz’altro, se cercherete bene”. I figli furono debitamente colpiti dalla rivelazione del vecchio padre e si accordarono ben presto per organizzarsi a restare alla fattoria e avviare la ricerca del tesoro, con la parte del quale ciascuno vagheggiava di fare grandi cose. Scavarono e rovesciarono a palmo a palmo la terra del vecchio finché, arrivati all’epoca della semina, pensarono che, giacché c’erano, potevano seminare la parte del terreno scavata senza trovare nulla. E continuarono a scavare e rovesciare il resto terreno finché, arrivato il suo momento, fecero il raccolto, che fu abbondante e, poi, finirono di scavare tutto il terreno  senza trovare nulla. Allora stanchi, delusi e un po’ irritati tornarono dal vecchio padre, che nel frattempo aveva preso a star meglio, e gli raccontarono tutto, chiedendogli spiegazioni. Il vecchio rispose “capisco che siate delusi, perché trovare un tesoro sembra meglio che lavorare, ma vi ingannate, tuttavia avete ragione ad essere irritati perché io vi ho mentito: non c’è e non c’è mai stato alcun tesoro sepolto nella nostra terra, è la nostra terra, come avete ben visto dal raccolto, il vero tesoro e se voi continuerete a lavorarla, stando insieme in buona armonia, non vi mancherà mai nulla e sarete felici”.