Io credo che, come nel dramma di Calderon de la Barca, quello che stiamo vivendo ora non è che un sogno, un brutto sogno; presto ci sveglieremo e torneremo alla nostra vera vita: una vita semplice, normale, con i suoi alti e bassi, ma senza l’eccitazione dell’eccezione.
Una vita, in cui non si passi continuamente dall’abulia dell’ordinaria amministrazione alla frenesia dell’emergenza; dal colpevole lassismo al rigorismo estremo; dalla spesa allegra alla lesina più affilata; dall’euforia della quinta potenza industriale alla disperazione del mancato, rispetto dei parametri di Maastricht; dai giacimenti culturali alla distruzione del patrimonio artistico; dal trionfalismo della ripresa industriale all’aumento della imposizione sulle imprese; dalla deplorazione della mancata creazione di nuovi posti di lavoro alla mancata riduzione del costo del lavoro; in una continua fiera delle contraddizioni.
Una vita in cui i politici, a tutti i livelli, tornino a proporre ai cittadini la loro visione della vita e del mondo, ricevano un mandato valido per un tempo sufficiente a tentare di realizzarle, possano essere successivamente giudicati: confermati o rimossi. E, nel frattempo, coloro che non abbiano avuto i suffragi per governare, controllino, incalzino, contrastino, pur sempre nel rispetto dell’interesse superiore della Nazione, i governanti.
Una vita in cui tutti facciano la loro parte con la massima correttezza che il sistema riesca ad assicurare, attraverso una giustizia ordinaria, amministrativa, tributaria, che non scordi mai il proprio essere soggetta alla legge e, soprattutto, l’essere un mezzo per raggiungere o recuperare gli obiettivi fissati dalla legge dello Stato, non un fine in sè. Una giustizia celere, stabile, leale, che non tenga il cittadino tra le proprie grinfie, più del tempo strettamente necessario, che non usi i poteri istruttori come anticipazione della pena o come intimidazione, che riconosca l’innocenza tutte le volte che non dimostri la colpevolezza, che decida sulle controversie tra i privati senza pregiudiziali di parti deboli o forti, che riconosca sempre, di là dal disagio sociale, i valori fondamentali di ogni convivenza: il rispetto del contratto, l’applicazione anche con la forza del giudicato, la responsabilità di ciascuno.
Una vita in cui i pochi funzionari pubblici, espletino i loro compiti, con disciplina e con onore, e i tanti dipendenti pubblici possano essere chiamati a rendere conto del loro operato, senza godere di alcun privilegio o franchigia.
Una vita in cui lo Stato, meglio articolato in comunità locali, di minore o maggiore ampiezza, tali da poter meglio svolgere le funzioni affidate loro, garantisca le basi della vita civile, interna e internazionale, fissi le regole e controlli che siano rispettate in tutti i campi attraverso adeguate articolazioni funzionali, senza produrre alcun bene o fornire alcun servizio che possa essere meglio prodotto o fornito da un qualunque operatore economico, anche particolarmente selezionato e controllato.
Una vita che, senza essere un sogno, sia più simile alla vita di tutte le comunità evolute e che potrebbe essere meravigliosa per i cittadini di un Paese, con tante risorse come il nostro, un Paese ricco di cultura, di opere d’arte, di bellezze naturali, di una Nazione piena di persone, uomini e donne, di grandi qualità, con tanta gente ingegnosa.
Una vita così sarà possibile? Si, sarà possibile se la maggioranza degli italiani deciderà di accettare il rischio del cambiamento.
febbraio 1996