Tra ὕβϱις regolatoria e νέμεσις giurisdizionale è sempre più difficile che l’interprete del diritto e specialmente del diritto del lavoro comprenda quanto la fattualità diverga dalla normatività. Così chi vive e opera nel mondo del lavoro, di là dal piacere malsano della lettura delle diatribe dottrinali, soffre nel vedere quanto poco buon senso si trovi in tutto ciò e quanto spesso se ne stia nascosto per paura del senso comune.
Tuttavia se crediamo veramente che ”è divenuto ancor più necessario garantire risultati migliori e più equi per tutti al fine di rispondere all’aspirazione universale della giustizia sociale, realizzare la piena occupazione, assicurare la sostenibilità delle società aperte e dell’economia globale, costruire la coesione sociale e combattere la povertà e le crescenti disuguaglianze”, come indica la dichiarazione OIL del 2008 Sulla giustizia sociale per una globalizzazione giusta, è arrivato il momento che la ricerca della felicità, ovvero della giustizia sociale, sia lasciata libera.
A livello economico sappiamo bene che la mano invisibile del mercato di Adam Smith è una pia astrazione, come sappiamo altrettanto bene che i gosplan sono stati una astrazione non pia, tuttavia la realtà dei fatti ci ha mostrato, pur con tanti lutti, che un mercato quanto possibile libero è più efficiente di qualunque mercato pianificato. Ovviamente anche la libertà non è un fatto automatico ma va costruita con la fiducia e aiutata con qualche perimetrazione giuridica.
Detto in altri termini sono i fatti e gli atti economici che sono la sottostruttura della società ed è ad essi che deve rispondere la soprastruttura giuridica, non viceversa. Perciò bisognerebbe che la legge e i legislatori smettessero di farsi paladini di qualsiasi idea di ascesi terrena da imporre ai popoli con la forza del diritto, sia civile che amministrativo o penale, per tornare a regolare i fenomeni sociali così come si sono venuti sviluppando e accettando comunemente.
Insomma un diritto che, come la filosofia nella metafora hegeliana, non pretenda di trasformare, determinare, guidare la società ma si limiti a regolarla per come si è liberamente conformata nel tempo e come è prevalentemente considerato giusto che sia, quando si abbia motivo di credere che tale conformazione debba restare invariata ancora per un certo tempo e si voglia dare ad essa una precisa configurazione legale, oltre che una conseguente tutela giurisdizionale.
Bisognerebbe quindi che la legge, secondo gli aurei canoni, facesse astrazione di quelli che sono gli elementi essenziali di ciascun fenomeno che voglia regolare, senza mai dichiarare specifici intenti né indulgere in troppo particolareggiate descrizioni, specificando le conseguenze della mancanza o del vizio di tali elementi agli effetti della tutela; fermo sempre restando che qualunque fenomeno sociale è di per sé rispettabile, quand’anche non sia tutelato giurisdizionalmente.
Perché la formula ex facto jus oritur può essere considerata estensibile a qualunque fatto e a qualunque diritto, non solo agli usi e consuetudini, nel piccolo, o all’instaurazione dell’ordinamento giuridico, nel grande. E perché è dai fatti, ovvero dal pieno e comune rispetto delle norme, che deriva quella effettività dell’ordinamento giuridico che, di là da ogni norma ipotetica fondamentale o qualsiasi riconoscimento esterno, lo rende vivo e valido.
Di conseguenza, se pensiamo al diritto del lavoro, mettendoci in questa ottica di visione, vediamo bene quanto si sia regolato troppo e come si continui a regolare male. Vediamo anche quanto tutta questa regolazione sia inefficace, essendo largamente elusa o evasa, se non venendo largamente inapplicata, mentre le violazioni di essa sono difficilmente contrastate e raramente sanzionate. Inoltre essa, ostacolando quelli che vorrebbero attenersi a normali regole ma sono impacciati dalle minuzie regolatorie, finisce per favorire quanti alle normali regole non intendono attenersi proprio.
Così, anche se con una qualche arditezza concettuale, potremmo parlare di ineffettività dell’ordinamento giuridico del lavoro. Così, soprattutto e senza particolare ardimento intellettuale, possiamo prospettare la necessità di una profonda riforma che, pur nel rispetto delle regole comunitarie e internazionali in materia, riporti il contratto di lavoro nell’alveo dei normali contratti e, anzi, lasci a tale contratto uno speciale spazio di libertà.
Infatti, trattandosi di un contratto legato all’intuitus personae e destinato a durare un qualche tempo, ha senz’altro bisogno, più di tutti gli altri contratti, di poter costruire, sviluppare, rinsaldare la fiducia delle parti contraenti; di poter rivedere, modificare, sciogliere i patti; di poter evitare, raffreddare, risolvere il conflitto in forme agili, sia in una dimensione strettamente bilaterale che in una dimensione multilaterale o collettiva.
È ben noto che il diritto del lavoro è nato e si è sviluppato, fino alla attuale assillante, per quanto scarsamente concludente, pervasività, per proteggere la parte debole del rapporto di lavoro, ovvero il lavoratore dipendente, ma dovrebbe essere ormai altrettanto chiaro che sia il lavoratore che la sua dipendenza, sono talmente cambiate da non essere più riconoscibili nell’archetipo novecentesco.
Tant’è vero che nell’attuale trasformazione del lavoro si stenta sempre più ad applicare tale archetipo, mentre ci si diletta a comporre variazioni sul tema con riferimento al lavoro digitale, agile, smart e, senza dimenticare il lavoro del volontariato, si almanacca sul lavoro che si trova nell’economia della condivisione o delle piattaforme, la cui estensione continua inarrestabilmente ad ampliarsi.
Allora sarebbe senz’altro più efficace sgombrare il campo sia dall’archetipo che da tutte le variazioni sul tema e ricondurre il contratto di lavoro allo scambio tra persone libere basato sul consenso, avente ad oggetto una qualunque prestazione certa, determinata o determinabile, non illecita, compensata come e quanto determinato dagli interessati in danaro, in natura, in formazione, con poche altre aggiunte vincolanti.
Così sarebbe più efficace collegare a sanzioni positive, statali, corporative o reputazionali, tutto quanto andasse oltre lo standard, praticato non imposto, nel quadro di quella che si è venuta configurando come responsabilità sociale d’impresa o etica di impresa, anche tenendo conto della evoluzione, a livello universale, della considerazione, della applicazione, della tutela dei diritti fondamentali dell’uomo.
Pertanto il lavoro universale non potrebbe, e non dovrebbe, più essere regolato nazionalmente, salvo che le parti del rapporto lo vogliano.