In Italia la linea più breve per unire due punti non è la linea retta ma l’arabesco – secondo il noto aforisma di Flaiano – così per non risolvere il problema della rappresentanza abbiamo inventato il “concetto” della rappresentatività e, di conseguenza, per dare piena efficacia al contratto aziendale abbiamo dovuto necessariamente ricorrere al referendum.
Ora, senza trascurare la storia del movimento sindacale italiano e della nostra contrattazione collettiva, con tutte le sue luci e ombre; e senza neppure tralasciare l’opportunità che il sindacato, finalmente, si occupi dei lavoratori non standard, anche con una sana concorrenza tra diverse proposte di servizio, come giustamente richiamato da Seghezzi e Tiraboschi (http://www.bollettinoadapt.it/la-non-modernita-del-sindacato-unico/); perché non ci decidiamo ad affrontare i problemi nel loro giusto ordine?
Se, per una serie di ragioni ben note, abbiamo vissuto tutta la nostra storia della contrattazione postcorporativa facendo sempre riferimento alla rappresentatività, anche in tutta la legislazione di sostegno di questi 69 anni di repubblica appena compiuti, e se, seguendo la formula per cui non viviamo un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento di epoca, vogliamo veramente vivere una nuova storia della contrattazione dobbiamo tornare alla rappresentanza.
La semplice e normale – nella dimensione civilistica – rappresentanza nella quale un soggetto dà mandato ad un altro soggetto, munendolo di poteri ed, eventualmente, fissandogli dei limiti, di rappresentarlo in una contrattazione allo scopo di raggiungere un qualche accordo; la qual cosa, di regola, avviene prima che la contrattazione abbia luogo, non dopo.
Perciò, se noi lasciassimo la rappresentatività fuori delle aziende, limitandoci ad utilizzare ancora questo (pseudo)concetto soltanto a livello istituzionale o, nella astratta dimensione delle autonomie collettive, come gestione di affari, e utilizzassimo, a livello aziendale l’istituto legale della rappresentanza, il problema della unicità o della pluralità sindacale non si porrebbe proprio.
Nel senso che, chiunque, sindacato (maggiormente rappresentativo a qualunque livello o meno) o altro soggetto, si proponesse come rappresentante e si aggiudicasse il mandato maggioritario dei (lavoratori) mandanti, sarebbe l’unico soggetto accreditato a negoziare, in nome e per conto dei suoi mandanti, la contrattazione del caso o le contrattazioni nel periodo di riferimento. Come avviene, in certo qual modo, negli Stati Uniti d’America e come si sta pensando di fare anche in Germania.
Così i sindacati, come li conosciamo e li abbiamo vissuti noi fino ad ora, potranno continuare a testimoniare il pluralismo delle idee e a difendere gli interessi dei lavoratori, sia in via generale che supportando, ove richiesto, il soggetto accreditato a negoziare, che sarebbe unico, detentore tanto di poteri quanto di responsabilità
Del resto, come scriveva Kelsen nei suoi scritti politici, dopo la fase democratica, che attiene alla scelta dei rappresentanti, c’è la fase autarchica, nella quale i rappresentanti devono essere lasciati liberi di sviluppare le loro azioni, sulla scorta delle cui proposte sono stati appunto prescelti (eletti). Ed è credibile che, per quanto la rappresentanza sia in crisi a livello politico, questo possa continuare ad essere considerato il modello migliore.