Altro medioevo prossimo venturo

Il medioevo prossimo venturo è diverso da quello immaginato da Roberto Vacca nel 1970. E, soprattutto, può essere spogliato dalla accezione negativa con la quale, solitamente, veniva evocato il medioevo che, invece, può essere considerato un’epoca d’oro del nostro paese. Infatti è stata smentita la vulgata che contrapponeva ai tempi bui del medioevo quelli luminosi del rinascimento e non considerava la luce abbagliante di questo come una conseguenza della luce meno splendente di quello, piuttosto che della tenebra.
Come ci spiega Carlo Rovelli il mondo senza tempo è fatto di eventi, non di cose e si può dire che gli eventi della nostra epoca dell’homo sapiens, come in una specie di curvatura dello spazio, più ci spingono avanti più ci riportano indietro, in un déjà vu di epoche lontane. Infatti, se nella storia dell’umanità troviamo dei passaggi decisivi per la civilizzazione, possiamo vedere quanti passi indietro siano stati fatti e quanti altri stiano per farsi. E si può fondatamente credere che abbiamo un luminoso futuro dietro le spalle.
Pensiamo a due momenti: il passaggio dall’oralità alla scrittura e quello dalla mano all’attrezzo, poi penseremo ai passaggi dell’organizzazione del lavoro.
Dal lato culturale la scrittura prima e il libro stampato poi rappresentano bene la parabola dell’uomo che racconta se stesso, le sue storie, i suoi miti, riti, precetti, agli altri e diffonde, tramanda i suoi racconti alle generazioni seguenti, li conserva e li spedisce nel cosmo come presentazione dell’uomo della terra alle, eventuali, entità aliene del cosmo. E, tornando alla direttrice, come al mitico piede dell’arcobaleno, stiamo ritrovando il tesoro della parola o, forse, del pensiero. Le nostre attuali comunicazioni brachilogiche per quanto siano scritte somigliano più ad un parlato trascritto che ad uno scritto vero e proprio e presto lo saranno davvero anzi, probabilmente, con evoluzione delle interfacce macchina/cervello, saranno un pensiero trascritto e sul luogo della trascrizione si possono fare le più diverse ipotesi.
Dal lato produttivo gli attrezzi e le macchine rappresentano una diversa parabola dell’uomo che costruisce per sé e per gli altri attrezzi, macchine, artefatti da scambiare, creando un mercato esteso al mondo, sistemi valutari, regolamentazioni varie. E, in questo caso, ritroviamo il tesoro della creazione, non in senso biologico generativo ma in senso tecnologico meccanico. Infatti la civiltà delle nuove macchine prevede che esse sostituiscano l’uomo nella fatica del lavoro e, a mano a mano che apprendano, nel pensiero del lavoro. Così, passando dalla forza lavoro animale alla forza motrice meccanica, si arriva alla forza lavoro dell’animale meccanico.
Venendo quindi all’organizzazione del lavoro, dopo essere passati dal lavoro servile, al lavoro autonomo, alla bottega medievale/rinascimentale, al lavoro dipendente in sistemi fordisti/tayloristi, al lavoro gestito in termini umanistici, siamo pronti per tornare alle origini, che erano molto più variegate di quanto si sia abituati a credere (1). Ovvero un lavoro al servizio delle macchine o degli altri; un lavoro economicamente dipendente da una o molte committenze ma svolto sempre in autonomia, dentro o fuori gli spazi messi a disposizione delle committenze; un lavoro che abbia come esito una parte di prodotto finito, dentro una catena di fornitura più o meno lunga, o un prodotto finito anche singolo e destinato all’uso proprio.
Ammesso che quanto precede sia corretto bisogna che quel particolare racconto della civiltà riferito ai precetti e alle varie regolamentazioni sul lavoro sia adeguato al tempo, anzi all’insieme di eventi che si stanno svolgendo. E, senza nulla togliere alle garanzie e alla dignità del lavoro, è arrivato il momento di restituire ai legittimi titolari il diritto di disporne liberamente.

(1) Franco Franceschi, Il mondo della produzione urbana: artigiani, salariati, Corporazioni, in Storia del lavoro in Italia, Roma 2017, passim
“Nelle città dell’Italia bassomedievale l’organizzazione del lavoro corrispondeva solo in parte all’immagine probabilmente più diffusa presso i non specialisti, ossia quella di un mondo dominato dalla piccola produzione indipendente e dalle sue icone: le botteghe, l’economia familiare, le Corporazioni come istituzioni egualitarie e conservatrici.
Le sedi di lavoro, per esempio, non erano solo le publicae apothecae degli artigiani, ma anche le più ampie strutture gestite dai lanaioli, setaioli e fustagnari, le officine in cui transitavano solo semilavorati e non si effettuava alcuna vendita, le abitazioni adibite a laboratorio, i cantieri, gli arsenali, le vetrerie, le cartiere. Accanto all’artigianato indipendente, fin dal Duecento se non prima, si era sviluppata la manifattura disseminata e, per quanto ancora limitatamente, quella accentrata. Tre modelli concettualmente distinti, ma che nella realtà potevano anche sovrapporsi, come mostra la struttura dell’industria laniera, dove le “case dei lavoranti” fiorentine rappresentavano isole di concentrazione produttiva in un sistema tutto votato all’esternalizzazione delle operazioni. Modelli che potevano anche convivere nella stessa città e perfino nello stesso settore, come avveniva per la lavorazione dei metalli nella Milano quattrocentesca: qui l’artigianato autonomo prevaleva largamente nella fabbricazione di minuterie (chiodi, magliette utilizzate per allacciare gli abiti), la manifattura nella sua duplice veste, sotto il controllo del mercante-imprenditore, era dominante fra gli armaioli e i battiloro, mentre la battitura dell’ottone (l’«oricalco») avveniva in aziende accentrate dirette da artigiani-imprenditori direttamente coinvolti nell’attività produttiva [Frangioni, 2002, pp. 57-67; Zanoboni, 1996, pp. 105-106].

In un simile scenario anche la “triade” imperniata sulle figure del maestro, dell’apprendista e del lavorante, sebbene il lessico delle fonti ne attesti la persistenza nel tempo, appare sempre più inadeguata a dare conto della pluralità degli attori che calcavano la scena economica: artigiani “propri” e artigiani “impropri”, maestri-imprenditori e maestri a salario, salariati “corporativi” e manodopera “marginale”, apprendisti “puri” e apprendisti-operai, salariati di salariati e lavoranti-bambini… Senza dimenticare le diverse figure di subappaltatori, intermediari, coordinatori e sorveglianti indispensabili in un mondo in cui la crescente articolazione delle attività e la sempre più accentuata specializzazione convivevano con l’esigenza di dare unità e coordinamento ai processi produttivi”.