In primo luogo soffermiamoci sulla definizione del termine disoccupazione.
Chi è disoccupato? E’ disoccupato chi ha perso il lavoro. Non lo è chi non ha mai lavorato.
Tant’è vero che i disoccupati sono beneficiari di vari tipi di interventi pubblici, assistenziali o previdenziali.
Ma i giovani, coloro che cercano una occupazione, tutti quanti non lavorano che sono? Sono “inoccupati”, non occupati.
Sempre non lavorare è, che cosa cambia?
Cambia l’età, la condizione familiare, la responsabilità sociale.
Un lavoratore che perde il posto di lavoro su cui aveva fondato una famiglia, in base al quale aveva assunto, eventualmente, impegni finanziari, magari per l’acquisto della casa, ha diritto ad una qualche diversa considerazione rispetto al giovane che aspira, talora con qualche eccesso di aspettativa, magari in relazione ad un titolo di studio avente valore legale ma spesso senza consistenza pratica, ad entrare nel mondo del lavoro.
Pertanto, se si concorda con una visione di questo genere; se si distingue tra disoccupazione e inoccupazione, si possono definire diversi tipi di interventi per l’una e per l’altra.
Innanzitutto si può smettere di riempirsi la bocca con cifre a molti zeri: infatti i veri disoccupati sono, soltanto poche centinaia di migliaia, e sono, in certo modo, frutto naturale di una economia libera.
Ciò senza contare tutti coloro che svolgono, più o meno regolarmente, 2 o più lavori.
I disoccupati veri vanno sostenuti nella loro ricerca di un nuovo lavoro, vanno aiutati se intendono avviare qualche iniziativa autonoma, o se sono disponibili all’apprendimento di un nuovo mestiere, tutto ciò per un tempo ragionevole durante il quale gli aiuti devono ridursi progressivamente, fino ad azzerarsi, e non possono essere replicati se non dopo un congruo periodo.
Per gli inoccupati, per i giovani e per tutti coloro che, a qualunque titolo e qualsivolgia ragione, in ogni momento della loro vita, cercano di entrare o di rientrare nel mondo del lavoro, si potrebbe adottare un semplice metodo.
Un metodo basato sulla responsabilità. Un sistema facile.
Tutto è legato al fattore tempi di vita/ tempi di lavoro e quindi fa leva sul sistema previdenziale.
Due considerazioni preliminari.
Tutti sanno che il costo del lavoro a carico del datore di lavoro è superiore al prezzo del lavoro incassato dal lavoratore, dal quale sono state già detratte le imposte; e ciò per effetto del costo del sistema previdenziale che si aggira intorno al 30%.
Molti sanno che, da sempre, il sistema previdenziale accetta l’idea che chi entra nel mondo del lavoro più tardi per effetto del tempo degli studi universitari possa, pagando di tasca sua, recuperare, in qualunque momento, prima del pensionamento, tale tempo agli effetti previdenziali. Allora: basta dare una analoga possibilità a tutti; cosicchè, avendo modo di recuperare successivamente la loro base previdenziale, possano offrirsi sul mercato del lavoro ad un prezzo netto, senza l’incidenza del costo previdenziale.
Le moderne società occidentali non possono ammettere che nessuno si sottragga alla compartecipazione nel s sostentamento dello stato sociale e della previdenza, ma possono ben accettare un rinvio nel pagamento.
E un’ipotesi del genere è più semplice e più pratica di qualunque altra.
Si potrà discutere sulle modalità, sui termini, sulle garanzie, ma il concetto è che, nella società del 2000, il prezzo del cambiamento non può ricadere su tutti indiscriminatamente, attraverso la fiscalità e la parafiscalità generale, ma deve vedere , quanto meno, una partecipazione dei diretti interessati alle spese del cambiamento.
Una rivoluzione liberale è quanto ci occorre.
settembre 1996