Lettera ad un amico sconosciuto

Caro Sofri,

Le scrivo dall’esterno del Suo carcere nel quale Lei è libero di pensare e di scrivere, per come ho imparato a conoscerLa attraverso i piccoli pezzi di poesia in prosa che Lei compone per il Foglio, che leggo regolarmente, e attraverso gli articoli più ampi, ma meno in sintonia con la Sua vena, che scriveva e forse scrive ancora per Panorama, che leggevo all’epoca della direzione di Ferrara.

Le scrivo dall’interno del nostro carcere nel quale noi non siamo sempre liberi nè di pensare nè di scrivere, presi come siamo dalle necessità, vere o presunte, della vita corrente, per darLe un consiglio amichevole e spassionato.

Naturalmente, pur senza averne alcuna cognizione diretta o indiretta, do per scontata tutta la penosità dello stato di detenzione, anche e soprattutto per la miseria degli ambienti fisici, oltre che per la inevitabile astrusità delle regolamentazioni carcerarie; e non voglio minimamente idealizzare, sulla scorta di una faticosa serenità espressiva come la Sua, la condizione carceraria.

Tuttavia, credendo fermamente nell’assoluta incoercibilità del pensiero umano, in quanto tale e ovunque esso abbia capacità d’essere, sono veramente convinto che la massima libertà sia collegata, e forse dovuta, alla privazione massima della libertà connessa con la carcerazione.

Inoltre, sulla scorta di quanto appreso su di Lei, sono convinto che Lei sia completamente cambiato dall’epoca degli anni di piombo; sono convinto che Lei si sia dato atto privatamente, molto più di quanto non abbia fatto pubblicamente, del traviamento a cui aveva portato la Sua intelligenza e del trascinamento di tale traviamento su persone umanamente e intellettualmente più fragili di Lei; sono convinto che Lei, moralmente, non meriti più, oggi, la punizione che, oggi, a tanta distanza di tempo, Le viene inflitta.

Peraltro, io credo che Lei abbia l’obbligo, in una logica di moralità civica elevata, che dovrebbe essere, ma non è, generale e che Lei ha recuperato a sè, dopo il tempo della contestazione, di restare pazientemente in carcere a scontare una pena forse ingiusta e, ormai, inutile; e proprio perché ingiusta e inutile Lei deve ancor più e meglio sopportarla, confortato com’è dall’amicizia e dalla stima di tanti che La conoscono bene o che non La conoscono affatto.

Continui a lottare con tutti i mezzi legali possibili perché la Sua verità sia riconosciuta vera, ma combatta anche perché la giustizia sia amministrata da uomini che riescano ad applicare la norma al caso concreto con una sapienza che sappia ritrovare sempre l’umanità della persona sottoposta al loro fallibile giudizio, oltre che con la sapienza del diritto.

Continui a lottare in tutti i modi perché il carcere non sia soltanto un luogo di dolore e, talvolta, di abiezione per quanti non hanno le capacità intellettuali ed umane che Lei ha; per quanti non hanno il modo o non sanno come esprimere l’esigenza di poter pagare un debito con la società in maniera onorevole e decente; per quanti non hanno la forza o la salute per poter affrontare una normale carcerazione.

Continui a lottare, tuttavia, senza far conto su quanti, amici o sodali di un tempo, possano, come governanti attuali, esserLe d’aiuto.

La Sua battaglia di verità e di giustizia sarà una battaglia di tutti se sarà leale e se, magari, Lei sarà l’ultimo a giovarsene.

Cordialmente

dicembre1997