Machiavelli docet

Si suole concentrare l’insegnamento di Machiavelli nell’asserzione della distinzione tra morale e politica o nella definizione della amoralità della politica o, altrimenti, nella formula “il fine giustifica i mezzi”.

E, ogni volta che viene in ballo l’applicazione conseguente di tale criterio, regolarmente si scatena la protesta delle anime belle che predicano la politica delle mani nette, delle buone intenzioni, della solidarietà universale.

La confusione più penosa che si fa così, è quella tra la morale comune, con tutta la sua aleatorietà, e la morale pubblica, la morale dello Stato o del Principe, in una astrusa istanza di eguaglianza tra governati e governanti.

Infatti, non escludendo che il Principe sia legibus solutus, è tuttavia inevitabile, proprio per una efficace gestione del potere, che vi sia sempre e ovunque una qualche asimmetria nel rapporto con la legge tra governanti e governati.

Del resto rientra necessariamente nella responsabilità della politica la ricerca del bene collettivo, che certamente non può essere il bene di tutti e, talvolta, può non essere il bene del momento, ma può modestamente essere anche soltanto il bene della maggioranza o, in qualche caso, il bene di domani.

Quindi, essendo di fronte a questa responsabilità, il Principe non si può e non si deve nascondere dietro una pretesa moralità corrente, ma si deve e si può determinare a qualunque azione, anche deprecabile e riprovevole o finanche illegittima, che serva a conseguire il bene collettivo o a mitigare, se non è possibile scongiurarlo, il male generale.

I buoni e i puri, o meglio coloro che pretendono di essere tali o, forse, quanti si oppongono al Principe in genere o al Principe del momento, bollano sistematicamente queste semplici considerazioni con l’appellativo infamante, moralmente e intellettualmente, di machiavellismo, semplicemente perchè non vogliono riconoscere che la natura dell’uomo non è originariamente buona.

Come ci insegna il cancelliere fiorentino gli Stati sono semmai disfatti dai profeti disarmati, di certo non sono nè costruiti nè difesi da costoro, per quanto sia giusto che vengano lasciati liberi di predicare.

Eppure lo Stato moderno ha forse raggiunto oggi il massimo possibile livello di accostamento tra la politica e la morale, anche in virtù delle istanze di controllo sovrannazionali e, soprattutto, della capillare e subitanea diffusione dell’informazione.

Pretendere di più sarebbe come voler distruggere l’equilibrio, già precario, di questa mirabile costruzione del genio dell’uomo, che è lo Stato perchè rischierebbe di vanificarsi il motivo fondamentale dell’esistenza di esso: la regolazione della convivenza, attraverso il mandato di molti a pochi di realizzare un contemperamento degli interessi della maggior parte degli uni e con la maggior parte degli altri.

E, in base a questo improbabile contratto, ovvero a questo fatto per cui le norme dell’ordinamento giuridico sono prevalentemente rispettate, è onere dei pochi che si sono proposti per governare, prendere tutte le risoluzioni necessarie alla convivenza e al benessere dei molti, che li hanno accettati come governanti.

“La storia non si giudica con le categorie con cui si giudicano le azioni degli individui” (machiavellico Croce).

P.S. Provi ciascuno ad applicare questi criteri a vicende recenti come: le inchieste sul Clinton; il caso Ocalan; la vicenda Pinochet; la immigrazione degli extra-comunitari in Italia; il sistema di finanziamento dei partiti italiani; e simili, e veda a quali conclusioni si potrà pervenire.

novembre1998